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NEPAL: A piedi sul tetto del mondo

di Alessandro e Sabrina

7 - 24 ottobre 2013

Non è facile immaginare un viaggio in Nepal senza un trek himalayano. Nella nostra prima ipotesi di viaggio però c’era anche il Tibet e la parte montanara era decisamente ridotta, in favore di un più equilibrato mix tra storia e natura. Poi però ci siamo resi conto che la situazione tibetana è tutt’altro che semplice: il campo base dell’Everest ad esempio è chiuso, per entrare nel paese bisogna essere in cinque della stessa nazionalità ed altre stranezze simili, tanto che pensa e ripensa abbiamo deciso di rimandare la visita del Tibet ad un prossimo viaggio. Ma cosa fare? Come gestire tutti i giorni a disposizione? Ce la sentiamo di fare un lungo cammino in montagna?
Facciamo qualche ricerca, sentiamo qualche esperto della zona, vediamo qualche foto… Sì, ce la sentiamo. Anzi, l’idea di arrivare al campo base dell’Everest ci eccita parecchio e il solo pensiero di andare ad affrontare un sentiero a dir poco mitico ci toglie anche i più piccoli dubbi.
Qualche mese dopo la nostra decisione accogliamo con piacere anche due nuovi compagni di viaggio, gli amici Elena e Matteo, che hanno fissato la data del proprio matrimonio a settembre e ci confessano che sarebbero felicissimi di trascorrere la loro luna di miele insieme a noi, a camminare tra le montagne più alte del mondo. E chi siamo noi per deludere due sposini?! Tanto più che se qualcuno pensa di voler fare questo come viaggio di nozze, allora merita davvero di essere accompagnato.
Trovare un volo a prezzi ragionevoli però, anche con largo anticipo, non è per niente facile. Dall’Italia è difficile arrivare a Kathmandu con meno di due scali e le poche combinazioni che ne prevedono uno solo costano decisamente troppo. Alla fine riusciamo a portare a casa una soluzione un po’ scomoda, ma eccellente dal punto di vista economico. Voleremo infatti fino a Dubai con Pegasus, un’ottima low-cost turca (blq-saw-dxb 249,74 euro a testa a/r, su flypgs.com), e poi fino a Kathmandu con Fly Dubai (dxb-ktm 266,96 euro a testa a/r, su flydubai.com); a causa del doppio scalo il viaggio durerà quasi un giorno intero.

Ma il volo è stato l’ultimo tassello di un puzzle solo in apparenza semplice. Quando si organizza una spedizione del genere la prima cosa da fare è decidere a quale compagnia di trek affidarsi. L’elenco è praticamente infinito e comprendere chiaramente le piccole differenze tra i servizi dell’una e quelli dell’altra è un lavoro certosino che ci ha portato via parecchie settimane. Ben prima di prenotare il volo abbiamo ristretto il campo a tre finalisti, i cui riferimenti indichiamo per la comodità di chi volesse un punto fisso da cui partire: Hardrock Treks and Expedition (Hard Rock Treks & Expedition, Thamel, Kathmandu, Nepal, hardrocktreks.com, tel. 977.1.4259067, 977.1.4266592, 977.1.4263375, fax. 977.1.4263375, mobile 977.9841117524; om@hardrock.wlink.com.np - hrt@hardrock.wlink.com.np - chrisrianne@yahoo.com), Himalaya Journeys (himalayajourneys.com, himalayajourney@yahoo.com), Nepal Guide Treks (nepalguidetreks.com, info@nepalguidetreks.com).
La tipologia di servizio è simile e più o meno tutti sono in grado di gestire anche il resto del viaggio, dalle escursioni agli spostamenti, dalle prenotazioni degli hotel a quelle dei voli interni. I costi invece possono variare enormemente, soprattutto perché esistono diverse possibilità di alloggio sia durante il trek che nel resto del paese. La cosa fondamentale è verificare che l’agenzia cui ci si rivolge sia tra quelle con l’autorizzazione governativa e con tutti i “marchi” di qualità in bella evidenza: tutti li espongono, quindi è facile controllare. 

Noi scegliamo Hardrock Treks e a posteriori possiamo dire di essere pienamente soddisfatti della scelta. Nella quota di 940 euro a testa è compreso il trek, il trasporto da/per l’aeroporto, il volo interno Kathmandu-Lukla e ritorno, tre notti B&B a Kathmandu e due B&B a Bhaktapur. Nella voce “trek” è incluso un servizio di pensione completa durante tutto il cammino (colazione, pranzo e cena, pernotto in teahouse, tea break durante il giorno, per 11 giorni), il noleggio di un sacco a pelo e di una giacca a vento pesante, la quota per la guida e per il portatore inclusiva di assicurazione, vitto e alloggio per tutta la durata del trek. Sono escluse le mance, che ammontano a circa 100 euro per la guida e 50 euro per ciascun portatore.
Decidiamo di gestire in maniera indipendente la visita di Kathmandu e Bhaktapur con le relative escursioni: si risparmia un po’ e soprattutto si guadagna la libertà di spostarsi a proprio piacimento senza doversi sempre confrontare con una guida o un autista. Inoltre va detto che il costo di qualunque servizio è bassissimo rispetto agli standard europei, quindi anche le spese più importanti si riducono a pochi euro. Come tasso di cambio si consideri 1 euro = 135 rupie nepalesi. 

Ma in pratica come funziona il trek? E’ la prima volta che affrontiamo un percorso a piedi così lungo e quindi prima di partire non riuscivamo ad immaginare concretamente la cosa. Ora che l’abbiamo fatto siamo in grado di riassumere l’esperienza in poche parole, dal punto di vista organizzativo.
Primo punto: non esiste un numero minimo o massimo di trekkers. Si può formare un gruppo, ma si può partire anche da soli. Insieme al gruppo c’è una guida, cui si aggiunge un portatore ogni due persone; noi che eravamo in quattro siamo partiti con una guida e due portatori. La guida porta solo il proprio zaino, così come ciascun escursionista. Il portatore invece è in grado di caricare un borsone di circa 20 kg, più il proprio bagaglio. Al portatore non deve essere fornito uno zaino, ma preferibilmente un borsone con maniglie, completamente impermeabile e delle dimensioni giuste per contenere comodamente una ventina di chili di materiale. E’ facile, sicuro ed economico acquistarlo in uno dei tanti negozi di attrezzatura da montagna di Kathmandu, soprattutto perché loro sanno di cosa abbiamo bisogno.
La mattina si parte tutti insieme, ma presto i portatori vanno avanti per conto proprio o insieme ad altri portatori. Talvolta li si ritrova ai punti di sosta, altre volte no. Alla fine della tappa avanzano ancora più velocemente per andare a controllare la disponibilità degli alloggi in cui la guida pensa di fermarsi. In caso di problemi provano alla struttura successiva, sempre indicata dalla guida.
Per questo motivo è importante scegliere bene cosa mettere nel proprio bagaglio e cosa in quello del portatore, perchè lo si ritroverà solo a fine giornata.
L’incertezza legata alle condizioni meteo e alla forma fisica dei trekkers non consente all’agenzia di prenotare tutti gli alloggi in anticipo, prima dell’inizio del trek stesso. Questo perché, oltre al possibile blocco dei voli da e per Lukla, a volte succede che per i più diversi motivi non si riesca a completare la tappa raggiungendo il paesino previsto. Quindi, per evitare inconvenienti e costose penali da parte dei lodge, la gestione delle tappe e dei relativi alloggi è affidata alla guida che, quotidianamente, contatta le strutture che intende utilizzare. Tutto questo non ci convince molto, ma ripensandoci forse è l’unica maniera, o almeno la più intelligente, che ha l’agenzia di far girare tutte le cose nel modo giusto. In ogni caso, che piaccia o no, è così.
La tipologia di alloggio, e di conseguenza il costo del trek, è variabile: si passa dal campeggio in tenda ai lodge più ricchi, passando per le cosiddette tea-houses, strutture di livello intermedio paragonabili ai nostri rifugi alpini. Più si sale e più la scelta si riduce.
Noi alloggiamo in comode tea-houses ed è una scelta che rifaremmo e che consigliamo vivamente. I rifugi, o lodge come talvolta li chiamano loro, sono gruppi di piccole stanzette costruite attorno ad un nucleo centrale, costituito di solito dalla sala comune. A volte le camere occupano strutture separate dal corpo principale oppure si trovano ai piani superiori della stessa struttura. L’unico ambiente riscaldato è la sala comune, dove si consumano i pasti e si spendono le ore di relax al coperto. In camera non c’è riscaldamento, ma non è abbastanza freddo da soffrire, soprattutto perché il sacco a pelo è più che sufficiente a garantire una notte calda e serena. Più si sale e più la temperatura in camera si abbassa: noi abbiamo misurato al risveglio circa 12-13 gradi a Namche e circa 6-7 a Dingboche. I servizi igienici sono comuni, a volte interni alla struttura, a volte fuori, più o meno accoglienti, a seconda del tipo di alloggio.
L’acqua calda non esiste. Per averla si paga. A volte la doccia è regolata da veri e propri boiler elettrici, altre volte è costituita da recipienti riempiti di acqua bollente preparata sul momento dal personale del lodge. Quando la doccia è esterna è situata in baracche decisamente semplici e tremendamente fredde la sera; per questo non sempre si avrà la voglia o il coraggio di chiedere una doccia calda. Il costo varia e cresce con l’altitudine: in media una doccia costa 400-600 rps.
Anche l’elettricità si paga. Di solito non esistono prese di corrente libere e funzionanti: per caricare l’attrezzatura si pagano in media circa 200-400 rps ad apparecchio, con prezzo sempre crescente in base alla quota.
Lo stesso vale per l’acqua in bottiglia, per quella bollita, per la carta igienica e per tutto quello che ci si trova a dover comprare. L’incongruenza che notiamo riguarda proprio l’acqua perché spesso il costo di una bottiglia sigillata è simile a quello di una borraccia di acqua bollita. Si tende a scegliere l’acqua bollente per avere a disposizione una bevanda calda durante il cammino. All’acqua abbiamo sempre aggiunto, su suggerimento della guida, alcune gocce di cloro per prevenire eventuali disturbi intestinali o malesseri di varia natura. Per lo stesso motivo ci è stato suggerito di evitare il consumo di carne dopo Namche Bazar, visto che non esistono allevamenti in quota e quindi si tratterebbe con ogni probabilità di cibo poco fresco.
I pasti sono compresi nella quota del trek, ma sono escluse tutte le bevande diverse da quelle calde; quindi the, infusi e acqua calda vanno bene, cioè sono free, mentre acqua in bottiglia, bibite e alcoolici no. Viene comunque sempre suggerito il consumo di bevande calde.
 
Che tipo di attrezzatura serve durante il trek? O meglio… cosa abbiamo portato noi? Oltre al già citato borsone per il portatore, serve uno zaino da circa 50-60 litri, con cover antipioggia. Serve un sacco a pelo (temperatura minima -10°C va benissimo) ed il relativo sacco-letto, che noi avevamo in seta.
Come giacca è indispensabile avere un guscio impermeabile di media pesantezza che verrà probabilmente usato durante tutto il trek; la giacca pesante, che loro chiamano down-jacket, può forse servire alle quote più elevate, ma probabilmente con i giusti strati si può arrivare in fondo anche senza.
Le scarpe ovviamente da trekking e di buona qualità, sia basse che alte, a seconda delle preferenze: noi ne avevamo un paio di ciascun tipo ed abbiamo usato quelle basse nei primi giorni e quelle alte quando il terreno è diventato più roccioso e insidioso. Per aiutarsi nel cammino possono servire dei bastoncini, telescopici o no, a scelta in base alle proprie abitudini: tra noi quattro solo io non li ho usati. E’ inoltre utile coprirsi con berretta/cuffia e scalda-collo ed avere a disposizione guanti leggeri per le temperature meno basse e guanti più pesanti da usare all’occorrenza. Gli occhiali da sole da montagna di buona qualità sono indispensabili, anche se non si pensa di attraversare zone innevate.
Pantaloni: noi avevamo un paio di pantaloni leggeri con cerniera al ginocchio che ci sono serviti a Kathmandu e nella prima parte del trek, un paio di pantaloni antivento leggeri ed un altro paio decisamente più pesante. Abbiamo quasi sempre usato i due pantaloni leggeri. Avevamo anche una calzamaglia termica che non abbiamo mai usato in cammino, ma che a volte ci è servita per creare la temperatura giusta all’interno del sacco a pelo. Importantissime le calze, che devono essere calde e soprattutto comode e adatte a lunghi cammini. Secondo noi la scelta tra merino e sintetico non è così decisiva, l’importante è la qualità.
Maglie e magliette. E’ utile avere un abbigliamento “tecnico” con elevate capacità traspiranti e ottimi tempi di asciugatura. Noi avevamo diverse magliette a maniche corte, una maglia a maniche lunghe leggera, una a maniche lunghe media ed una più pesante. Queste le abbiamo usate tutte quasi ogni giorno. E’ importante disporre di strati di diversa pesantezza, oltre alla giacca, per gestire al meglio le variazioni di temperatura che possono intervenire in qualunque momento della giornata, indipendentemente dalla presenza o meno del sole. In aggiunta avevamo anche un paio di magliette termiche che non abbiamo usato durante il trek, ma per dormire o per le ore di sosta presso il rifugio.   
In caso di pioggia può bastare lo schermo costituito dal guscio, ma conviene disporre di un ulteriore strumento di protezione che può essere un poncho, un k-way o un ombrello, a seconda delle preferenze. Noi avevamo anche un paio di ghette che, nostro malgrado, si sono rivelate utilissime.
Servono infine una borraccia, una buona crema solare ed un telo/asciugamano a rapida asciugatura (esempio in microfibra). Più le usuali dotazioni mediche e per l’igiene personale.  

Anche se in generale preferisco avere le mie cose di qualità, devo dire che i negozi di Kathmandu sono fornitissimi. Sebbene le marche più famose siano dichiaratamente contraffatte, la qualità media non è affatto trascurabile e la possibilità di scelta è praticamente infinita. Inutile dire che di fronte a prezzi quasi dieci volte inferiori ai nostri risulta difficile non lasciarsi tentare. Noi avevamo portato da casa tutta l’attrezzatura indispensabile, ma abbiamo arricchito il nostro corredo con numerosi articoli locali. L’unica cosa che è meglio non dover acquistare in loco sono le scarpe, non tanto per una questione di qualità, quanto piuttosto perché è meglio avere le proprie scarpe collaudate rispetto ad un paio nuovo di cui non si conosce ancora il comportamento. Per tutto il resto vale la pena lasciare un po’ di spazio nel bagaglio perché in quei mountain-shops sembra di essere bambini nel luna park più divertente del mondo.  

Quello che segue è il racconto dettagliato dei primi giorni a Kathmandu e del finale a Bhaktapur, con in mezzo il lungo romanzo del trek. Quest’ultimo è di scarso interesse pratico: chi cerca informazioni tecniche può anche fermarsi qui, chi invece è curioso di sapere tutta la storia e vuole provare a comprendere le nostre emozioni può armarsi di tanta pazienza e cominciare la lettura.

lunedì 7 – martedì 8 ottobre: ITALIA – KATHMANDU
Lunedì pomeriggio si parte. Tra uno scalo e l'altro arriveremo a Kathmandu dopo 24 ore e lì resteremo per un paio di giorni, per visitare la città, i dintorni e per fare gli ultimi acquisti per la passeggiata.
Già... la passeggiata. Otto giorni per salire e tre per scendere, tre compagni di viaggio, una guida e due portatori, tremila metri di salita e tanta voglia di arrivare vicino alla montagna più gigante che c'è. Se tutto va bene arriveremo a circa 5550 metri sopra il livello del mare, cinque chilometri più in alto di dove ci troviamo in questo momento. Che solo a pensarci mi viene da guardare in su per capire su quale nuvola potremmo trovarci.

E mi vengono in mente tutte le storie dell'alpinismo, Hillary e Tenzing che conquistarono la vetta 60 anni fa, Mallory e Irvine che sono ancora lassù, tutti gli altri che hanno tentato e tutti quelli che ce l'hanno fatta, quelli che riposano nel ghiaccio e quelli che rimarranno sempre nei libri. Sarà l'età, ma mi commuovo sempre pensando a tutte queste storie, alle imprese e ai fallimenti, all'orgoglio e alla vanità, alle speranze e ai sogni, le stesse che ci riempiono adesso che ci apprestiamo a camminare sugli stessi sentieri, a guardare in faccia gli stessi giganti.
Il tono epico può sembrare esagerato, quasi fuori luogo, ma per noi che amiamo le montagne e le sue storie questo è un viaggio favoloso, colossale; sarà anche solo una passeggiatina in confronto alle imprese dei più forti, ma per noi è una cosa grande, molto grande.
Confesso di provare lo stesso mix di eccitazione e timore che accompagna gli esami. Sono tranquillo e so che siamo preparati, ma l'altitudine è sempre un'incognita e il meteo ancora di più. Sento che ci sono forze che non posso controllare; sento la responsabilità di portare sull'Himalaya non solo Sabrina, che ormai è abituata alle pazzie e mi seguirebbe ovunque, ma due ragazzi che hanno deciso di spendere il loro viaggio di nozze camminando insieme a me. Farò di tutto per portarli fino in cima. Sempre che alla fine non debbano essere loro a portare me. 

In realtà è Fly Dubai che non mi vuole portare. All’aeroporto di Dubai il solerte addetto del banco transiti mi fa notare che la mia carta di credito non è la stessa con cui ho acquistato il volo. Per forza, gli spiego, la carta è stata sostituita un paio di mesi fa. Comunque il biglietto è stato pagato ed emesso, sono arrivato fino a qui ed ho comunque una carta di credito valida. Niente da fare, lei non può partire. E non mi consegna la carta d’imbarco per l’ultimo volo, quello per Kathmandu. Mi chiede le prove dell’esistenza della vecchia carta, tipo uno scontrino di un acquisto che ho fatto in aeroporto. Ma allora non vuoi capire: ti ho detto che la carta non c’è, come faccio ad avere uno scontrino di oggi!? Poi l’illuminazione: ho alcuni vecchi sms dell’avvenuto pagamento con la vecchia carta, tra cui guarda caso quello del volo. Li mostro al fenomeno e lui mi dice che non vanno bene perché non compare il numero completo della carta. Intanto la navetta è partita e dopo quella un’altra, il tempo passa e noi siamo ancora bloccati in questo camerone dei transiti. Non ci posso credere. Prima di pensare a come eliminarlo fisicamente mi viene in mente che la carta giace ancora sulla mia scrivania; se qualcuno potesse farle una foto e inviarmela avremmo la prova della sua esistenza. Allora chiamo un amico (in Italia non sono ancora le 6) e gli dico di andare a prendere le chiavi a casa dei miei genitori, di andare a casa mia, fare la foto e tutto il resto. Sempre che la carta sia ancora lì. Alla fine la carta si trova, mi invia la foto, la mostro all’amicone di Fly Dubai, lui sembra tentennare, ma poi decide che anche quella non è una prova sufficiente. Adesso gli piazzo una testata in faccia. Per sua fortuna decide di essere magnanimo, ci rilascia un biglietto provvisorio della navetta (senza carta d’imbarco non si sale) e ci dice di rivolgerci al banco Fly Dubai del terminal da cui partiremo. Almeno ci muoviamo da qui e non lo vedo più. Però come facciamo senza carta d’imbarco?! Non c’è pericolo di perdere il volo, però il tempo passa e il margine che prima era tanto ampio adesso non lo è più. Arriviamo al terminal, mi presento al famoso banco, la signorina vede il biglietto provvisorio, mi fa rispiegare tutta la stessa storia, chiama la sua superiore e le riporta il mio racconto e quella cosa fa…? La liquida con un gesto della mano e un’occhiata come a dire “ma sei scema?” e mi stampa la carta d’imbarco. Tempo totale trenta secondi. 

Durante il volo che ci porta a Kathmandu parliamo più dell’evoluzione del meteo che del piccolo disguido della carta. Dal forum arrivano notizie poco incoraggianti: la settimana appena trascorsa è stata tanto brutta che i voli da/per Lukla sono stati sospesi per tre giorni. Chissà che caos. Ormai però dovrebbe essere tutto passato, non s’è mai visto un monsone così lungo. E se proprio deve piovere, abbiamo ancora qualche giorno a Kathmandu che sacrifichiamo volentieri.
Arriviamo con quasi un’ora di ritardo, poco male, e un’altra ora la perdiamo per sbrigare le procedure del controllo passaporti. Il visto turistico per 15 giorni costa 25 dollari e si compila direttamente sul posto. Oltre al pagamento serve anche una fototessera, che l’addetto all’immigrazione appone sulla sua copia del visto. Nello stanzone di arrivo non abbiamo notato macchinette per farsi la foto, quindi è meglio portarne un paio dall’Italia, se non altro per non perdere ulteriore tempo.
Sono le 20 passate, ma fuori è caldo, molto caldo. E’ buio e all’uscita ci viene incontro un omino con gli occhiali che a prima vista sembra un po’ Filini e un po’ un impiegato del catasto degli anni ’80. Ha un cartello col mio nome e al nostro saluto ci fa cenno di seguirlo verso una macchina. Al posto di guida c’è un tipo più grosso con aria più sicura. Ci presentiamo, ma non capiamo in alcun modo il loro nome, così come loro non capiscono i nostri. Che sia uno di loro la nostra guida? Lo chiediamo, dicono yes, ma non capiamo se hanno capito la domanda. Durante il percorso verso l’hotel parliamo del più e del meno, ma in particolare vogliamo sapere le notizie sul tempo. Ci rassicurano, dicono che in effetti fino a ieri è stato brutto come non capitava da anni, che Lukla era isolata e che dal punto di vista delle spedizioni in montagna è stato un disastro. Adesso però è tutto passato, oggi è stato bello e anche nei prossimi giorni lo sarà: inizia la stagione secca. Tanto più che siamo in pieno Dashain, la più lunga e importante festività nepalese, che dura due settimane ed avrà il suo culmine lunedì prossimo: “Dashain… always good weather!”, dicono entrambi. E se lo dicono loro… 

Il traffico in città è pazzesco. Veicoli, moto, pedoni, biciclette, carretti, animali… tutti ad occupare la stessa carreggiata, disposti su due, tre, quattro, cinque file, in numero variabile in base al momento, tutti alla massima velocità che riescono a tenere, tutti a suonare un clacson, una trombetta o qualsiasi altra cosa rumorosa. Lo spostamento di una fila comporta lo spostamento in parallelo di tutte le altre, se un’auto evita un pedone tutte le altre di lato fanno contemporaneamente lo stesso movimento, fino alla zona destinata a marciapiede. La cosa incredibile è che nessuno tocca nessuno, non ci sono contatti o discussioni, ognuno semplicemente va dove deve andare. Uno qualunque di noi sarebbe morto o coinvolto in un incidente in meno di cinque minuti. Le arterie principali sono asfaltate, ma i lati delle stesse e le strade secondarie sono in terra battuta, così il passaggio dei veicoli genera una nebbia sabbiosa che impasta la bocca e rende l’aria pesante. Capiamo così perché molti bagnano la parte di strada di fronte alla propria abitazione o negozio.
Ci vuole più di mezzora per arrivare all’hotel (Kathmandu Prince Hotel, Thamel, Chhetrapati, G.P.O. Box: 8974, CPC 005; tel. 4255961-4255282, fax. 977.1.4255282; ktphotel@wlink.com.np; kathmanduprincehotel.com) superando incroci micidiali e ingorghi apparentemente impossibili. Tempo di andare in camera, posare i bagagli e via usciamo per andare a cena e fare un primo giro esplorativo. Prima però salutiamo l’omino della macchina che è ancora lì che ci aspetta (vuoi che sia proprio lui la guida?!): dice che domattina alle 8:30 ci passerà a prendere per andare in agenzia a fare la riunione informativa per il trekking.
Siamo un po’ spaesati, è inevitabile visto che siamo arrivati da un minuto, ma con la mappa in mano riusciamo a capire dove ci troviamo e dove si trova Durbar Square, il cuore della città. Sembra una sciocchezza, ma orientarsi non è scontato perché le strade non hanno nome e quelle che sulla carta sembrano viali sono in realtà stradine di terra schiacciate tra i palazzi. Con queste premesse trovare uno dei ristoranti consigliati dalla Lonely è impossibile, ma in fondo chissenefrega: basta infilarsi in un posto pieno di gente locale. Solo che di posti pieni di gente non ce n’è, perché è tardi ed è quasi tutto chiuso. Vediamo un cartello che ci sembra quello di un ristorante, il giovanotto che ci sta sotto ci invita ad entrare e così facciamo. Ci conduce su per una scaletta e… ma questo non è un ristorante! Siamo in una grande stanza con tre tavoli e alcune persone sedute, altri chiacchierano con loro, ma non sembrano ospiti, sembrano amici o parenti. Vuoi vedere che questa è casa loro!? Una signora ci fa sedere su un divanetto e ci consegna un foglio che dovrebbe sembrare un menu. Ordiniamo qualcosa che ci sembra assomigliare a quanto letto sulle guide e per ogni cosa che ordiniamo questa fa un cenno ad un ragazzino che esce in strada e sparisce. Lo fa una volta, due, tre… in pratica sta andando a prendere i piatti che ordiniamo da qualche altra parte, forse in un ristorante vero. Fantastico! Alla fine chiedo un dessert a sua scelta e il giovanotto dell’ingresso dice “ci penso io” e se ne va. Dopo un po’ ritorna con 3-4 piatti che ci dice di provare: un tortino tipico del dashain, un altro dolcetto che fanno a Kathmandu e una specie di yoghurt da bere con uvetta e altre cose che galleggiano. Scopriremo presto che quello è il famoso e favoloso lassi (“losci”, come lo pronunciamo loro), lo yoghurt di Kathmandu di cui ben presto diventeremo dipendenti. Ce ne andiamo tra mille ringraziamenti dopo aver speso 2100 rps in quattro, meno di 4 euro a testa. 

Per arrivare a Durbar Square prendiamo un paio di stradine buie e strette, le porte delle case sono tutte chiuse, a terra notiamo tanto riso e tanti petali arancioni. Sono le offerte per le divinità in occasione della grande festa del dashain. La piazza è grande e gli edifici imponenti, solo che tutto è buio, l’illuminazione praticamente non esiste a parte qualche faretto montato direttamente sui principali templi. Non c’è praticamente nessuno, a parte qualche passante che non resiste alla tentazione di rivolgerci la parola per sapere da dove veniamo e qualche tassista che si propone di accompagnarci ovunque domani o quando vorremo noi. In generale la prima impressione che abbiamo della popolazione e del luogo è decisamente migliore di quanto ci aspettassimo. Nessuno che ci infastidisce, nessuno che ci guarda in modo strano e nessuna sensazione di disagio o pericolo. Anzi ci sembra di avere a che fare con gente tranquilla e serena, gentile e disponibile; buona gente insomma. Va detto che questa prima impressione sarà pienamente confermata nei giorni che verranno, senza eccezioni.

 

mercoledì 9 ottobre: KATHMANDU
Sono le 8:29 quando il nostro amico dell’agenzia si presenta davanti all’hotel. Puntualissimo e sorridente: ci piace già; se davvero sarà la nostra guida ne saremo contenti. Ci guardiamo attorno per cercare la macchina, ma lui è venuto a piedi e a piedi ci conduce fino alla sede della Hardrock Treks. Facciamo la nostra prima esperienza di passeggiata diurna per le vie di Kathmandu e ci divertiamo ad evitare tutti gli ostacoli, più o meno animati, e ad evitare di essere travolti da uno dei cento mezzi che ci sfrecciano accanto. Dopo un po’ ci riesce facile: basta ignorare tutti e procedere per la propria strada, ci pensano loro a spostarsi di conseguenza. Le vie che percorriamo sono piene di agenzie di trekking con accanto altrettanti negozi di attrezzatura da montagna: non ci fermiamo, ma i pochi prezzi che riusciamo a vedere ci sembrano incredibilmente bassi. Se le cose stanno così sarà meglio cominciare a fare spazio nei bagagli per il ritorno.

In agenzia c’è Om in persona, il famoso titolare della Hardrock. Ci accoglie con un sorriso tanto sincero quanto gentili e pazienti erano le sue mail e comincia a spiegarci come funziona il trek e l’organizzazione dello stesso. Finalmente ci svela il mistero del nome del nostro amico (Nabaraj, pronunciando la “j” come la “g” di gioco) e, dopo averci snocciolato tutte le sue esperienze precedenti, ci conferma che sarà lui la nostra guida. Ci chiede i documenti ed in particolare i dati dell’assicurazione, con un puntiglio ed una precisione che sinceramente non ci aspettavamo. Lo consideriamo un altro segno di serietà. 

Vale la pena aprire una parentesi sull’assicurazione. Tutte le agenzie di trekking richiedono che i propri clienti siano dotati di una polizza assicurativa che comprenda non solo il pagamento delle spese mediche generali, ma anche quelle di recupero e trasporto con mezzi speciali, tipo elicottero. E’ quindi importante controllare bene che tra le clausole del nostro contratto assicurativo sia chiaramente indicato anche questo tipo di recupero. Inoltre tutte le polizze assicurative (o almeno tutte quelle che abbiamo consultato noi) estendono la propria copertura fino alla quota di 4000 metri. Noi che abbiamo la polizza Columbus annuale, ad esempio, non saremmo coperti oltre quella quota e non avremmo neanche la possibilità di estendere la copertura alle quote più elevate.
Alla fine però troviamo il modo di avere la copertura che desideriamo: la sede britannica dell’Austrian Alpine Club (12a North Street, Wareham, Dorset, BH20 4AG; tel: 01929.556.870, aac.office@aacuk.org.uk; www.aacuk.org.uk), oltre a tanti benefits più o meno utili, regala a tutti i propri soci una polizza assicurativa completa AWS (Alpine Association Worldwide Service) che comprende il soccorso in montagna in tutto il mondo, con qualsiasi mezzo, fino alla quota di 6000 metri. Il costo dell’iscrizione annuale all’AAC (UK) è di 43,50 sterline per il capofamiglia e 33,50 sterline per il coniuge. Dalle nostre ricerche questo è l’unico modo per avere una copertura assicurativa completa per un trek himalayano come il nostro.

Oltre che sulle questioni tecniche Om si sofferma anche sulle raccomandazioni che possono sembrare scontate, ma che evidentemente per molti escursionisti non sono tali. Vuole anche una fototessera da apporre sulla carta del trekker, una specie di documento di identità che dovremo mostrare all’ingresso del parco e a tutti i posti di controllo che incontreremo lungo il cammino. Questo documento va sempre fatto ed è di colore blu nel caso in cui, come noi, si faccia parte di un gruppo organizzato con guida e gestito da un’agenzia, mentre è di colore verde per quelli che intraprendono il trek in maniera del tutto indipendente, trasportando il proprio materiale ed assumendosi la piena responsabilità di quanto può accadere durante il trek stesso. Come concordato paghiamo in contanti l’intera quota per evitare un supplemento legato al pagamento con carta di credito.
Ci consegna una bottiglietta con le gocce di cloro da aggiungere all’acqua, ci mostra il ricco kit di primo soccorso che Nabaraj porterà per noi e ci comunica che i sacchi a pelo e le giacche ci saranno consegnate direttamente in hotel il giorno seguente. Chiediamo anche a lui notizie meteorologiche e anche lui ci rassicura dicendo che di maltempo ne hanno già avuto abbastanza in questi primi giorni del mese e che adesso dovrebbe essere tutto passato. Per il sole al Khala Pattar invece ci dice che l’unico modo è pregare e che lui lo farà per noi. Speriamo che basti.
A questo punto ci libera, ci augura le migliori fortune e incarica il buon Nabaraj di accompagnarci nel loro negozio di fiducia per farci fare i migliori acquisti, verificando i prezzi insieme a noi. Non potevamo desiderare niente di meglio: pure la guida in negozio. Solo che lui non sa che noi siamo come cavallette fameliche… Detto… fatto… In un’ora ripuliamo il negozio e cediamo a tutte le tentazioni possibili. A un certo punto il negoziante deve chiamare soccorsi perché non riesce a seguire ciascuno di noi quattro che giriamo impazziti nel locale come pesci rossi in un acquario rotondo. Giacche, maglie, magliette, bastoncini, k-way, zainetti, borsoni, borracce… alcune cose che porteremo con noi e molte altre che lasceremo in custodia a Om per il ritorno a casa. Che goduria! A questo punto è sicuro che dovremo imbarcare qualcosa. 

Salutiamo il povero Nabaraj e ci incamminiamo verso Durbar Square con i saluti del negoziante che ancora grida alle nostre spalle e che nei giorni seguenti ci ringrazierà ancora da un capo all’altro della strada ad ogni nostro passaggio. Sono passate poche ore dal nostro arrivo, ma già ci sentiamo più sicuri nel caos delle strade e procediamo quasi senza esitazioni. Ogni stradina è stracolma di gente, chiaro segno dei giorni di festa, ed è addobbata con fili di bandierine di preghiera colorate. Qualunque tempietto è pieno di offerte di ogni tipo e le raffigurazioni delle divinità sono ormai completamente colorate di rosso e arancio a causa dello sfregamento dei tradizionali petali colorati. Perfino le mattonelle decorate che si incontrano a bordo strada sono colorate e sepolte sotto offerte di riso, tanto che oltre al traffico dobbiamo fare attenzione a non calpestarne nessuna per non mancare di rispetto a qualcuno.
Abbiamo ancora la stessa sensazione di sicurezza e tranquillità della sera precedente, nonostante i passanti siano cento volte di più nessuno ci infastidisce o ci riserva più attenzioni di quanto desideriamo. Certo, ogni tanto capita una guida o un tassista che offre i propri servizi, ma mai con insistenza e sempre con simpatia. Lungo il percorso troviamo anche un venditore di lassi e ce ne facciamo subito uno “big”, tanto per prendere il ritmo.
Poi arriviamo a Durbar Square e capiamo il senso della parola folla. Uomini, donne, bambini, molti a piedi, alcuni in bici o in moto, automobili scassate e furgoncini, carretti trainati da buoi e buoi senza carretti, cani, galline, tassisti, santoni, guide, vecchi che si appoggiano al bastone e altri che stanno seduti forse a pregare, venditori di articoli turistici e venditori di cose sacre, turisti in gruppo e turisti che fanno foto… sono tutti qua. Prima che possiamo notarlo ci si affianca un ufficiale e ci dice che dobbiamo pagare: ora capiamo il senso di quelle casette ai quattro angoli della piazza. In pratica qui si paga (750 rps a testa; http://www.kathmandu.gov.np/Page_Kathmandu+Durbar+Square_168) per accedere al quartiere, alla zona che comprende la piazza e le principali attrazioni al suo interno e attorno ad essa. Lo stesso sarà alla Durbar Square di Patan e di Bhaktapur.

Seguiamo un po’ le indicazioni della guida, riconosciamo quasi tutti gli edifici principali e saliamo su alcuni per avere una visuale più ampia del complesso: la piazza è molto grande ed ha forma irregolare, quasi è formata da più piazze che si affacciano una sull’altra, ciascuna con un carattere diverso. I grandi templi in legno che ne occupano il centro e i vecchi palazzi in muratura che la cingono su tutti i lati creano un ambiente unico e un’atmosfera molto particolare, decisamente caratteristica. Sui tetti le vecchie tegole sono quasi completamente avvolte da una vegetazione spontanea, più o meno secca, che cresce da chissà quanto tempo. Alle finestre senza vetri si affacciano anziane signore che potrebbero avere 60 o 100 anni, oppure bambini curiosi che salutano tutti quelli che passano e sembrano avere una faccia diversa da quelle che sono abituati a vedere. Dopo esserci divertiti ad esplorare tutti i vicoli che collegano le varie piazzette riprendiamo la direzione nord verso Kantipath (pranzo leggero in un ristorantino sulla strada, 370 rps in quattro), un grande viale trafficato, per raggiungere il Garden of Dreams. E dire che ci eravamo ripromessi di non camminare troppo per non sprecare energie in vista del trek. 

Il giardino dei sogni è un’area verde privata risalente al 1920; posta tra il palazzo reale e il quartiere di Thamel, è oggi aperta al pubblico (ingresso 200 rps; gardenofdreams.org.np) e visitabile da turisti e nepalesi. L’insieme di padiglioni e fontane, aiuole e laghetti, tutto in stile neoclassico, lo rende realmente un’oasi di pace nel traffico caotico della capitale. E’ incredibile pensare al silenzio e alla quiete che regnano al suo interno sapendo che a poche decine di metri, giusto oltre il muro di cinta, ci sono i rumorosissimi viali della città. C’è parecchia gente sui prati e anche noi ci concediamo un po’ di riposo all’ombra, prima di riprendere il giro delle visite.

Ma invece di camminare ancora, siamo in effetti un po’ lontani, chiediamo a un tassista che guarda caso ci aspettava fuori dal cancello di portarci al tempio delle scimmie, il famoso Swayambhunath (ingresso 200 rps; http://www.kathmandu.gov.np/Page_Swoyambhu+Nath+Stupa_169) che sorge su una collina a ovest di Thamel. Facciamo bene, perché l’ascesa al tempio non sarebbe stata per niente semplice e non abbiamo certo bisogno di fare centinaia di gradini qui a Kathmandu.
Il complesso che comprende il tempio è favoloso. Dagli alberi che ornano il piazzale di ingresso partono decine di cavi con bandiere di preghiera di ogni colore: alcuni arrivano sulla cima di altri alberi, altri al tetto di qualche tempietto, altri ancora superano un boschetto e vanno in direzione dello stupa principale. L’effetto, col sole della sera che illumina la scena, è strabiliante. Ovunque si vedono scimmie che vagano liberamente; da sole, con i piccoli, in gruppo, ciascuna indaffarata in qualche importantissima attività scimmiesca. Il sito non è dedicato ai piccoli primati, dunque le scimmie non sono venerate, ma evidentemente hanno eletto questo luogo, in cui nessuno fa loro del male, a loro residenza. Non costituiscono un pericolo per le persone, se non per piccoli furti di cibo o altri oggetti; l’importante è non avvicinarle con troppa insistenza, soprattutto se hanno i piccoli al seguito. Per il resto sono ottimi soggetti per le foto e rendono l’intero luogo ancora più particolare.
In cima alla salita si vede l’enorme stupa circondato da altri edifici più piccoli. Si può liberamente passeggiare tra le casette di quello che è a tutti gli effetti un piccolo villaggio e contemplare la bella vista di Kathmandu da una posizione privilegiata. Inutile dire che una visita a questo tempio è obbligatoria durante qualunque soggiorno nella capitale. 

Una volta rientrati in città passiamo dall’hotel per prenotare il taxi per le escursioni di domani: ora che abbiamo più familiarità con i prezzi locali ci sembra che la proposta dell’hotel sia più che onesta. In questo modo dovremmo riuscire a vedere i siti più importanti in un’unica giornata senza dover contrattare un trasporto di volta in volta. La gita, che comprende Bodhnath, Pashupatinath e Patan, ci costerà 1000 rps a testa. Anche per questo genere di attività, oltre che per la buona qualità del servizio, delle camere e della colazione, dobbiamo dire che il Kathmandu Prince Hotel ci soddisfa pienamente.
Per oggi abbiamo camminato abbastanza, quindi andiamo a cercare un ristorante che abbiamo notato stamattina e che ci sembrava vicino all’hotel. Infatti lo troviamo e mangiamo tanto da scoppiare per 1700 rps in quattro. Purtroppo non possiamo ricordarne il nome perché all’ingresso non c’è e perché qua chiedere un biglietto da visita è come pretendere un po’ di ghiaccio da un tuareg.
 

giovedì 10 ottobre: KATHMANDU
Ci tenevamo a visitare almeno i luoghi più importanti della valle di Kathmandu e questa gita in taxi ci consente di fare tutto senza troppo dispendio di energie. I tre siti fuori città si incontrano procedendo in senso orario da nord a sud: prima Bodhnath, poi Pashupatinath e infine Patan. E allora via per le strade polverose ancora una volta, col clacson che suona senza pietà e una ruota di preghiera in miniatura che gira sul cruscotto. 

Bodhnath (ingresso 150 rps) è in sostanza un enorme stupa sferico, probabilmente il più grande del Nepal, cui nel tempo è stato costruito attorno un vero e proprio quartiere. Solo che questo quartiere è chiuso e forma in pratica una piazza con una quinta circolare; alla piazza si accede attraverso varchi posti in alcuni punti del perimetro, tutti affacciati sui viali della città. L’origine di questo sito è da ricercare nella cultura tibetana, in quanto si trovava sull’antica via che collegava il Tibet alla valle di Kathmandu e a Patan, l’antica capitale. I pellegrini e i profughi che dal Tibet seguivano la via verso sud trovavano ristoro in questo punto e così, nel tempo, sorse e si sviluppò il sito come lo vediamo ora. Ecco spiegato il perché di questa chiusura verso l’esterno, di questo arrocco attorno al sacro stupa gigante.
La struttura in effetti è impressionante, per le dimensioni e per l’intorno creato da queste facciate colorate che si affacciano sulla piazza. La stessa piazza non è in realtà uno spazio aperto come siamo abituati a pensare, ma un largo percorso ad anello che corre attorno al muro perimetrale dello stupa. All’interno del perimetro centrale si trovano alcune scale che consentono l’accesso alle aree di preghiera ed alla zona ai piedi dell’immensa cupola. Solo gli addetti alla manutenzione possono salire sulla cupola stessa. Ovunque troviamo simboli, altarini, statue e raffigurazioni che non riusciamo a decifrare e a comprendere fino in fondo, ma sicuramente l’atmosfera che respiriamo qua dentro è molto diversa dal resto della città, chiusa fuori dalle mura: tutto l’insieme è così singolare e stupefacente che quasi ci piace più del bellissimo tempio delle scimmie di ieri.

 

Risaliamo in macchina con una rinnovata voglia di Tibet (ma non c’era mica bisogno di Bodhnath) e ci lanciamo, letteralmente, alla volta di Pashupatinath (ingresso 1000 rps), uno dei siti più sacri che costituisce l’equivalente nepalese della Varanasi indiana. Con le dovute proporzioni naturalmente.
Si tratta di un sito dedicato al dio Pashupati, che se abbiamo capito bene è uno dei nomi o manifestazioni di Shiva, che comprende numerosissimi templi lungo un tratto del fiume Bagmati, il corso d’acqua che bagna la capitale ed è sacro sia per gli induisti che per i buddisti. Sui numerosi ghat disposti sulle sue rive si preparano le pire funerarie per la cremazione dei defunti, le cui ceneri vengono poi sparse nelle acque del fiume sacro. Acque che raccolgono i lavacri dei defunti, le ceneri, i bagni dei locali e degli animali, le vesti e i resti dei corredi funebri, gli scarichi di Kathmandu e l’altra immondizia comune… e che secondo noi sono sacre perché una volta che ci si immerge non resta che pregare e affidarsi a qualche divinità. Scherzi a parte, non vogliamo mancare di rispetto a nessuno, appena si arriva, prima ancora di vedere il fiume e le persone, si capisce che il luogo è particolare, diverso.
C’è molta gente in giro, ma in tutto il complesso regna un silenzio rispettoso che, se paragonato al rumore cui ormai siamo abituati, risulta quasi innaturale. Le persone si spostano lentamente, non gridano, sostano a pregare e quasi non ci degnano di uno sguardo; anche noi procediamo senza parlare e servono parecchi minuti prima che ci decidiamo a scattare una foto. Solo i soliti figuranti che chiedono di essere fotografati in cambio di denaro ci avvicinano e rompono la sacralità dell’area.

Nelle vicinanze del tempio principale, quello dedicato a Pashupatinath, due ponticelli pedonali in muratura collegano le due sponde del Bagmati. Solo i componenti della famiglia reale possono utilizzare i ghat che si trovano esattamente di fronte al tempio; le persone comuni possono cremare i propri defunti su tutti gli altri, per lo più disposti e visibili sulle riva occidentale. Si può liberamente accedere alla zona dei ghat e dei templi, ma solo gli hindu possono accedere al tempio di Pashupatinath. Ci si sente inevitabilmente a disagio a camminare con una macchina fotografica in mano tra gruppi di persone che si preparano a celebrare un funerale e ancora di più quando un rito è in corso. Preferiamo rimanere più a lungo sulla sponda opposta, da cui tra l’altro si gode di una migliore vista sul complesso nel suo insieme.
Assistiamo a diverse fasi del rito funerario, perché le cerimonie si svolgono contemporaneamente in più punti. In fondo ad una scalinata che si perde nelle acque del fiume c’è il cadavere di una donna, deposto su una specie di lettiga, che un paio di parenti stanno preparando per il rito. Con gesti sempre uguali bagnano il corpo della donna con le acque sacre e dispongono veli e indumenti, evidentemente con un significato che ci sfugge, sugli arti, sul ventre e sulla testa. Molti fiori color arancio sono pronti lì accanto. In cima alla scalinata un gruppo di una decina di parenti assiste in silenzio alla scena. Poco distante un bambinetto, avrà 7-8 anni, si immerge completamente per lavarsi. Dal nostro punto di osservazione possiamo vedere, all’estrema sinistra, un pira completata con sopra una specie di barella simile a quella su cui giace la donna di prima. Sopra si notano le forme di un corpo avvolto in teli colorati, mentre un uomo con in mano una torcia sta tra la pira e i numerosi parenti che occupano la parte estrema della tettoia. In pochi secondi il fuoco è acceso. Sul ghat vicino, sarà lontano una decina di metri, le fiamme hanno già consumato buona parte della pira e vicino al rogo c’è solo un uomo che guarda le fiamme e il fumo con le braccia lungo i fianchi. Spostando lo sguardo notiamo una scena singolare e semplice, che però forse ci impressiona più di tutte le altre. Due giovani, che noi chiamiamo i monatti, rovistano con un bastone tra le ceneri ancora fumanti, probabilmente in cerca di preziosi o altri trofei. I due non sembrano parenti del defunto, quanto piuttosto abituali frequentatori del luogo che ora litigano ferocemente per aggiudicarsi il tesoro che uno dei due ritiene di aver visto per primo.
Restiamo un po’ ad osservare le forme dell’ultimo saluto ai defunti e come noi una folla di curiosi e parenti sulle terrazze di fronte al tempio principale, guardando con profondo rispetto questa umanità diversa che compie rituali a noi quasi incomprensibili. Poi saliamo la lunga e ripida scalinata che, dopo aver superato i terrazzamenti con innumerevoli tempietti di Shiva, conduce alla spianata panoramica della sponda orientale, con vista sul tempio di Pashupatinath e su tutto il sito, fino all’ansa del Bagmati. 

Non c’è molto altro da vedere, se non tempietti secondari che occupano il versante più lontano della collina. In tutto la visita ci è costata solo un paio d’ore, ma si è rivelata più interessante ed emozionante del previsto.
Il sito da cui invece ci aspettiamo molto è Patan, l’antica capitale Lalitpur, che oggi si trova a sud di Kathmandu. Anche qui l’area più interessante è quella che comprende Durbar Square e le vie circostanti: l’ingresso (500 rps) si paga presso una delle biglietterie poste in corrispondenza delle vie d’accesso. Sarà che tutti i templi sono magnifici e ravvicinati, sarà la perfetta conservazione e la cura del luogo, sarà che col sole tutto sembra più bello… di sicuro questa piazza è favolosa.
Un giovane in cerca di turisti da guidare ci indica come raggiungere il punto sopraelevato da cui scattare la classica foto delle cartoline: si tratta di una terrazza sul lato opposto della strada cui si accede salendo una scaletta di pietra seminascosta dietro alle bancarelle, proprio accanto al negozio del venditore di lassi. E via un lassi big a testa, che da quando abbiamo fatto colazione non ne abbiamo ancora preso nessuno; non vorremo mica avere una crisi di astinenza!?
La vista di Durbar Square dalla terrazza è bellissima e la posizione elevata consente di scattare foto da un’angolazione privilegiata. Deludiamo il gentile ragazzo guida e ci affidiamo alle pagine della lonely e al caso per esplorare questa meraviglia in un tempo umano. In tutta onestà un visita guidata forse ci avrebbe consentito di comprendere meglio le simbologie ed il significato delle costruzioni, ma anche il girovagare con lo sguardo per aria e le nozioni fondamentali di una guida cartacea non toglie niente al tempo che trascorriamo qui a Patan. C’è molta gente, in apparenza più locali che turisti, ma si passeggia comunque con piacere, senza alcun fastidio. Giriamo tutta la piazza principale e quelle secondarie, seguiamo i percorsi a piedi suggeriti dalla lonely, ci perdiamo imboccando vicoli e stradine a caso, spinti solo dalla curiosità, da un odore particolare o dalla vista di qualcosa appeso all’ingresso di un negozio.
Gira e rigira si fa presto a far sera e, tempo di un’altra foto dalla terazza, è già ora di ritrovare l’autista per tornare in hotel. Non vogliamo rientrare troppo tardi perché dobbiamo preparare i borsoni, controllare i sacchi e le giacche che Om dovrebbe aver consegnato, decidere cosa lasciare in agenzia per il bagaglio del ritorno e sistemare tutto per il trasferimento di domani.
  

Già… domani. Ora che le visite sono finite non abbiamo più scuse per occupare la mente, non abbiamo più niente di cui parlare che non sia il trek. Solo adesso sentiamo che il momento sta finalmente per arrivare.
In hotel non c’è ancora niente da parte di Om: poco male, abbiamo il tempo di preparare i bagagli da lasciare a lui in custodia. Facciamo anche in tempo a portarli in agenzia e lì scopriamo che le nostre cose sono appena partite per raggiungerci in hotel. Ci siamo incrociati per strada. Om coglie l’occasione per augurarci ancora tutto il bene e la fortuna possibili. Solo che in hotel scopriremo che le giacche hanno taglie esageratamente grandi per noi, c’è pure una XL. Chiamiamo in agenzia, ma ormai è chiuso e non c’è nessuno che possa aiutarci a fare un cambio. Siamo un po’ contrariati perché una giacca troppo grande non riesce ad essere efficace contro il freddo e il vento, tuttavia non possiamo farci niente e mettiamo i fagotti nel borsone dei portatori. In qualche modo, pensiamo, ci organizzeremo. I sacchi a pelo invece vanno bene, sono perfettamente puliti e sembrano caldissimi.
Non abbiamo altro da fare, l’eccitazione cresce e passeggiamo cercando un buon locale dove cenare. Troviamo il famoso Yak Restaurant (cena completa 1355 rps in quattro; http://www.tripadvisor.it/Restaurant_Review-g293890-d1156637-Reviews-Yak_Cafe-Kathmandu_Kathmandu_Valley_Bagmati_Zone_Central_Region.html), specializzato in cucina tibetana e molto frequentato sia dai turisti che dai locali, che ci regala un’ultima cena a Kathmandu ottima ed economica. E’ proprio quello che volevamo. Ora davvero non ci resta che tornare in hotel, chiudere definitivamente gli zaini e riposare bene. Domani Nabaraj ci verrà a prendere alle 4:30.
Domani è il nostro giorno.

 

venerdì 11 ottobre: KATHMANDU – LUKLA – PHAKDING
E finalmente il giorno arriva. Il giorno del volo per Lukla, del volo verso le vette himalayane che abbiamo sognato tutta la vita e che finalmente potremo toccare. E’ il giorno del trek.
Svegliarsi prima dell’alba e saltare la colazione sono piaceri che condividiamo tutti insieme mentre il taxi arrugginito sfreccia tra le strade quasi deserte del primo mattino. Ci sembra così strano non sentire i mille clacson e non vedere la massa di veicoli e persone e animali che invade la carreggiata.
Nonostante l’ora il terminal dei voli domestici, chiamiamolo così, è affollatissimo e pieno di un’umanità quasi omogenea, di persone quasi tutte uguali. Facce sicure e grintose, scarpe da trekking, giacche tecniche, guanti, pantaloni antivento, occhiali a specchio… sono tutti vestiti allo stesso modo: americani, spagnoli, francesi, russi, tutti accompagnati da qualche nepalese in tenuta da alta montagna, tutti con gli occhi pieni di quello che devono ancora vedere.
Beh… quasi tutti. Ci sono anche gruppi di piccoli giapponesi e rumorosi italiani che indossano scarpe da ginnastica, occhiali firmati e maglioncini di cotone. Tutti in fila dietro ad una bandierina, tutti con la borsetta stretta al corpo e gli occhi vigili, neanche fossimo in un quartiere malfamato a mezzanotte. Sono quelli che prendono uno dei tanti voli per “mountain”. All’inizio pensiamo di aver capito male il nome della località, magari è un modo per dire Lukla; invece no, è il nome dei voli turistici che fanno un sorvolo della catena himalayana e tornano indietro. E allora capiamo tutto, le scarpine leggere, i maglioncini, gli occhiali… che vadano pure a mountain. 

Il nostro dovrebbe essere “uno dei primi voli”. Nabaraj si intrattiene a lungo con un tipo che ha in mano un pacco di carte d’imbarco, poi indica il banco di una compagnia, poi quello di un’altra, poi ci dice di sederci perché il nostro volo parte tra un po’. Ci consegna il boarding pass di Air Kasthamandap; ma che compagnia è?! Non compare sui monitor, non viene annunciata, non ha neanche il suo banchetto. Boh… saprà lui come fare. E la carta d’imbarco, a volerla dire tutta, è un pezzo di cartoncino della compagnia con un numero scritto col pennarello accanto alla dicitura “Flight No”. Capiamo quanto sia importante avere una guida o comunque qualcuno che sappia districarsi in questa situazione, in cui tutti devo andare nello stesso posto, ma nessuno sa di preciso come fare.
Passa un’ora, ne passano due, decollano molti voli Tara Air e Sita Air, partoni i duri e partono quelli per mountain, ne arrivano altri e pure quelli partono, ma quando tocca a noi? Alla fine arriva il nostro momento, sono passate le 9 e ci troviamo davanti ad una bilancia gigante per pesare i nostri borsoni da venti chili. Usciamo sulla pista e ci dicono di andare a sinistra; ma come… gli aerei sono a destra! Un po’ più in là c’è un pick-up da cui esce un omino che ci fa un cenno di saluto. Ma non ci stiamo, che storia è mai questa?! Fa salire le donne e la macchina è piena, e noi? Nessun problema, ci indica il retro scoperto. Hai capito… le donne dentro e gli uomini fuori insieme ai bagagli e agli attrezzi. Fantastico! Che bello il Nepal!
Il nostro aereo è più piccolo degli altri, molto più piccolo. Scopriamo che insieme a noi voleranno solo altre due persone: il caso vuole che siano una coppia di italiani altoatesini, lui che è alla quinta esperienza sullo stesso sentiero, ci tiene a dircelo subito, lei che invece sembra un po’ più perplessa. In pratica, chissà perché, voleremo con una compagnia privata. Poco male, l’importante è andare.
Matteo ha paura di volare, si sforza di apparire tranquillo, ma l’aspetto semplice e trasandato dell’aeroplanino è un po’ difficile da digerire. Comunque non c’è tempo per avere paura, siamo in movimento sulla pista e in un secondo stiamo già guardando Kathmandu dall’alto.
Il cielo è sereno e non c’è vento, voliamo che è un piacere, tanto che mi addormento finchè una mano mi scuote la spalla e una voce mi dice “guarda, c’è l’Everest!”. Faccio una foto a caso dal finestrino, mi sa che non era l’Everest, però è lo stesso: siamo già arrivati.

La pista è in salita. O in discesa, dipende dai punti di vista. E’ cortissima e finisce contro il fianco della montagna. Scendendo si sente la forza di tutte le correnti contro il nostro piccolo velivolo. Ecco perché l’aeroporto di Lukla è definito il più pericoloso del mondo, figuriamoci cosa può essere volare qui con condizioni meteo avverse. In ogni caso atterriamo senza un sussulto, senza paure e senza problemi. Siamo al Tenzing-Hillary Airport, il polo aereo voluto proprio dai protagonisti della storica conquista, la porta di accesso alle vette himalayane.
L’aerostazione è un grande camerone in cui si affolla la stessa gente, con le stesse facce che abbiamo visto partire da Kathmandu, ora più abbronzate e segnate dalla montagna. Una rete arrugginita separa l’area aeroportuale dal resto del paesino e al di là di quella decine di nepalesi che salutano, chiamano, gesticolano… Sono i portatori in cerca di un ingaggio. Nabaraj, che a Kathmandu sembrava spaesato, è diventato improvvisamente fortissimo e sicuro, sembra anche più alto; ignora tutti e ci porta al Namaste Lodge per organizzarci e fare colazione.
Il posto è bello, sembra uno dei nostri rifugi, e la colazione è ricca e buonissima. Mentre mangiamo Nabaraj parla fitto fitto con quello che sembra il capo del lodge, ma anche il boss del paese, con la faccia tranquilla dei forti e la calma dei predatori. Non lo sappiamo ancora, ma prima della fine lo rivedremo e sarà di nuovo protagonista della nostra storia.
Usciamo. Le stradine sono piene di gente, uomini con enormi carichi sulla schiena, donne, bambini, buoi, mucche, galline… Si vede che la giornata è buona e l’aeroporto sforna escursionisti a tutto spiano. Ci sono anche i nostri portatori: due giovanotti che dimostrano sì e no vent’anni. Insieme a Nabaraj sistemano i nostri borsoni, li legano, ci fissano sopra i propri zainetti e si caricano il tutto sulle spalle. Anzi, più che sulle spalle tengono il carico sulla schiena, sostenuto da una fune che a sua volta gira sulla fronte, nell’assetto tipico del portatore che ci sarà tanto familiare nei giorni che verranno. E così si parte, inizia il trek. 

Alla fine del paese c’è un arco in muratura, intonacato e dipinto di bianco con pochi decori tradizionali, una specie di portale verso le montagne. Tutti devono attraversarlo, quelli che arrivano e quelli che partono. Per noi e per gli altri escursionisti appena arrivati rappresenta l’inizio di tutto, la porta dei sogni, l’accesso al mondo di cui tanto abbiamo fantasticato. E’ inizio e fine, gioia e dolore, è un insieme di emozioni da leggere in un secondo sulla faccia di chi proviene dalla parte opposta.
Basta un passo per oltrepassarlo, ne bastano due essere già lontani da Lukla e ritrovarsi sul sentiero, sulla ripida discesa verso il fondovalle.
Siamo felicissimi. Pieni di energie e di entusiasmo non sentiamo la strada che scorre sotto i nostri scarponi, il cielo è limpido e il sole ci riscalda, anche troppo, tanto che presto ci troviamo a procedere in maglietta e pantaloncini.
Nabaraj ci spiega il significato delle forme rituali che incontriamo una dopo l’altra: ruote di preghiera, bandiere colorate issate su alti pali di legno, enormi massi decorati o scolpiti con la riproduzione del celebre mantra… om mani padme hum… om mani padme hum… om mani padme hum…  Non c’è da scherzare, grande sventura attende chi passa dalla parte sbagliata. Ci spiega che è importante passare tenendoli alla nostra destra e che la ruota va girata con la mano destra in senso orario. Notiamo infatti che tutti rispettano il rituale e addirittura c’è sempre un doppio sentiero che aggira gli ostacoli, proprio per permettere di passare dalla parte giusta. Neanche a dirlo ne facciamo subito una regola di vita; abbiamo bisogno di tutta la buona sorte e di tutto il favore divino possibile.
Passa un’ora, ne passano due, procediamo sicuri senza difficoltà: il percorso è semplice e in leggera discesa. Qualche ponte sospeso per dondolarsi un po’ sugli strapiompi che via via superiamo, qualche villaggetto e tanto verde. La valle è molto bella e sufficientemente ampia da permettere la coltivazione, il sentiero è molto largo e consente il passaggio di persone e carovane di animali da soma: buoi, asini, yak, tutti portano pesanti fardelli. Il tempo passa veloce e in meno di tre ore siamo a Phakding, dove i nostri portatori ci aspettano con i borsoni. Dormiremo in una semplice guesthouse, pulita e confortevole, con l’inaspettato lusso di un bagno in camera.
Tutto troppo facile. Domani sarà certamente un’altra storia.
 

sabato 12 ottobre: PHAKDING – NAMCHE BAZAR
La notte è più calda del previsto, la stanza è fredda ma non troppo e i sacchi a pelo ci fanno sudare più di quanto desideriamo. Dovremo prenderci le misure. Anche rifare il borsone ci costa più tempo del dovuto, ma anche a questo porremo rimedio nei prossimi giorni. In fondo è la prima volta. Comunque alle 8 siamo in cammino verso Namche Bazar, il cielo è sereno e il sole splende, è caldo e anche oggi camminiamo con braccia e gambe scoperte.
Il percorso non è difficile, abbiamo tempo per fare foto e per cercare di risolvere il mistero delle cose comprese e non comprese nel pacchetto trekking che abbiamo acquistato. L’unica certezza che ricaviamo è che il tea-break di metà mattina è compreso, mentre l’acqua bollente con cui riempiamo le borracce alla partenza sembra non esserlo. Pare incluso anche un refill del riso e delle pietanze nepalesi durante il pasto, ma non quello di altre portate. Dovremo fare altri test durante il cammino perché abbiamo l’impressione che lo stesso Nabaraj non sia poi tanto sicuro. Poco male, non sono certo questi i problemi.
Un problema invece, si fa per dire, è quello della carta: carta igienica e fazzoletti sembrano essere beni di lusso e non solo costano tantissimo, ma sono difficili da reperire. Nei lodge e nei ristoranti non c’è quasi mai carta nei bagni e nemmeno tovaglioli sui tavoli; su richiesta arrivano, ma sembra sempre di chiedere cose marziane. Non parliamo del wi-fi, costoso e prezioso come l’acqua nel deserto. Altra cosa cui ci abitueremo strada facendo.
A proposito di strada… poco dopo Monjo c’è l’ingresso al Sagarmatha National Park, l’area protetta che comprende il territorio nepalese da qui al confine con il Tibet. Per seguire la vallata dobbiamo fare continui saliscendi, perdendo e riguadagnando continuamente la quota come dannati di un girone dantesco. Intorno a noi formidabili pareti rocciose si alzano e precipitano verso il fiume allo stesso tempo, regalandoci prospettive con una profondità che non abbiamo mai visto. Sembra tutto altissimo; la valle, che in realtà è larga diverse centinaia di metri, sembra uno stretto e angusto canyon, tagliato di tanto in tanto da improbabili ponti sospesi. Verso est si cominciano a vedere cime di tutto rispetto: il Thamserku e il Kangtega sfiorano i 7000 e ci sembrano bellissimi. 

Quando ormai stiamo per concludere il tratto in falsopiano per attaccare l’erta finale verso Namche Nabaraj ci fa fermare su uno sperone roccioso tra gli alberi e ci invita a guardare qualcosa lontano, attraverso i rami. E’ un triangolo con la punta arrotondata, un abbagliante bianco sopra altri bianchi tra il verde della boscaglia, un alto così alto che le nuvole stazionano a metà strada tra la terra e la sua cima: è l’Everest. Per la prima volta vediamo la cima più alta del mondo, la vetta che abbiamo sempre sognato e che ci ha portato fin quaggiù, la montagna per cui generazioni di alpinisti hanno sacrificato tempo, energie, denaro e perfino la vita. E noi siamo qui, in piedi con le nostre macchine fotografiche a scattare foto tutte uguali a quel triangolo bianco laggiù, con il cuore pieno e la testa che scoppia per l’emozione. Non una gran vista in realtà, neanche una bella foto, ma un’immagine che nessuno di noi potrà mai dimenticare. E’ fin troppo facile in questi casi cadere nel melodramma, ma il momento è uno di quelli che non capitano tante volte nella vita. Poco più avanti c’è un altro view-point, più facile e più ampio, dove ci fermiamo per scattare altre foto insieme ad altri, troppi, escursionisti, ma non è più la stessa cosa. 

Ai piedi della salita finale c’è un ultimo check-point (se ne incontrano tanti lungo il cammino) in cui oltre alla nostra identità dobbiamo anche dichiarare la marca delle nostre attrezzature foto-video. La cosa ci fa sorridere e ci lascia parecchio perplessi, soprattutto perché Nabaraj ci spiega che questa procedura è volta a prevenire i furti di materiale tecnologico. Ai posteri l’ardua sentenza sull’efficacia di questo controllo.
La salita è abbastanza faticosa, forse perché arriva dopo quasi sei ore di cammino sotto il sole, ma la vista di Namche Bazar dal basso è unica. Un favoloso anfiteatro naturale con pareti tanto alte da sembrare verticali e centinaia di costruzioni arroccate quasi una sull’altra in un equilibrio che sembra impossibile da mantenere.
Il paese è grande, il più grande e attrezzato che si incontra lungo il cammino, ed è completamente votato all’accoglienza turistica: negozi, lodge, ristoranti, tutto ruota attorno agli escursionisti ed alle loro esigenze. Il nostro hotel è un Comfort Inn pulito e spazioso, con camere essenziali e servizi al coperto, più simile ad una struttura occidentale che ad un vero e proprio rifugio nepalese. La doccia calda, nonostante sia a pagamento (400 Rps), è un lusso che decidiamo di concederci e che ci ristora.
Prima che faccia buio abbiamo il tempo di fare un giretto tra le vie del paese, per farci tentare da qualche altro articolo montanaro a basso costo e per vedere arrivare qualche nuvola che piano piano avvolge l’anfiteatro. E’ normale che si annuvoli un po’ la sera, ci dicono; in fondo - pensiamo - siamo in montagna. 

In realtà a cena scopriamo con disappunto di non essere affatto in montagna. Ma come!? Sì, perché dall’inizio del cammino Nabaraj continua a dirci che in montagna si fa questo, che in montagna si fa quello, che quando saremo in montagna… E allora gli chiediamo: ma qui a 3400 siamo in montagna o no?! Lui sdegnosamente ci dice "certo che no!". E anzi ci spiega, ripensandoci bene, che in effetti in montagna non ci saremo mai, perché il Khala Pattar, che coi suoi 5545 metri per noi è come la cima dell’Everest, per loro è una collina: testualmente "hill". E noi che abbiamo detto a tutti che saremmo andati in alta montagna. Ma vallo a sapere che invece si andava a fare una gita in collina!
Così, tra una battuta e l’altra ci infiliamo nei sacchi a pelo col tic tac della pioggia sulle lamiere, là fuori nel buio. Ma tanto si sa, in montagna la sera due gocce le può sempre fare.
 

domenica 13 ottobre: NAMCHE BAZAR
La mattina scopriamo che nella notte le gocce sono diventate quattro e forse anche cinque, tanto che quando guardiamo fuori dalla finestra vediamo solo acqua che forma laghi per terra e altra acqua che li alimenta cadendo dall’alto. Ma sì, cosa vuoi che sia, una notte di pioggia ci può stare! E poi abbiamo tutta l’attrezzatura da bagnato con noi, vorremo pur darle la soddisfazione di essere servita a qualcosa!
Così, dopo colazione, coi sacconi già sulle spalle dei portatori, ci prepariamo alla giornata di acclimatamento nei dintorni di Namche. La sgambata prevede una sosta al punto panoramico sopra il paese con tappa al vicino museo e la visita dei villaggi sherpa della zona, fino ai 3800 metri di Khumjung e nuova favolosa vista delle vette da qui all’Everest.
Da morire dal ridere la preparazione sotto la tettoia dell’hotel. Noi ci acconciamo per dieci minuti, ghette, pantaloni anti pioggia, giacche, giacchine, pile, guanti, berrette, allaccia qui, stringi là... Il nostro povero Nabaraj tira fuori un foglio di plastica da uno scatolone, se lo mette in testa e va nella pioggia così, con la sua camicina a quadretti e i suoi pantaloni della tuta bucati. Ci dice che non c’è problema, che può capitare un po’ di pioggia anche nella stagione secca, ma poi più tardi torna il sole e le nuvole se ne vanno. Del resto, l’ha detto lui, siamo nella stagione secca. 

Arranchiamo fuori dal paese scivolando sull’erta che ci porta al punto panoramico e al museo. Solo che purtroppo di panoramico non c’è niente, le montagne sono qui attorno e noi non le vediamo. Poco male, ci rassicura il fido Nabaraj, ripasseremo nel pomeriggio per fare le foto; nel frattempo possiamo visitare il piccolo museo del mondo himalayano.
Entrare qui è come entrare nella storia dell’alpinismo, con i racconti delle imprese, quelli felici e quelli tristi, e tutte quelle facce… aah quelle facce! Tutti campioni, tutti vincitori, alcuni celeberrimi e altri meno, sherpa, europei, americani, tutti lì vicini e tutti sorridenti in cima a qualcosa, una montagna, una salita, un cumulo di neve; tutti pronti ad affrontare qualcosa che darà loro la gloria eterna nel ricordo di tutti noi. Foto e storie che abbiamo visto e sentito mille volte, ma che qui, a casa loro, fanno tutto un altro effetto. Ci sono i poveri Mallory e Irvine, ci sono Hillary e Tenzing, ci sono i cinesi, c’è Messner, tutti quelli che negli anni hanno percorso la stessa strada, lo stesso sentiero su cui ora stiamo camminando noi. Il solo pensiero ci mette i brividi. 

Altri brividi ce li regala invece la pioggia, che nel frattempo non ha rallentato neanche un po’ e che decide di accompagnarci anche mentre saliamo verso la vecchia pista per i mezzi di soccorso. Se quella di Lukla ci aveva fatto impressione, questa ci fa proprio paura: una distesa di sassi e terra, con ciuffi d’erba qua e là e l’aria di essere tutto tranne che piana e sicura. Ci dicono che ora viene usata solo per l’atterraggio degli elicotteri di emergenza, alla stregua di altri piccoli punti di atterraggio più su, verso la fine del sentiero.
Salire è abbastanza faticoso perché il terreno scivoloso e i torrentelli di fango che cominciano a scendere non aiutano a mantenere un buon passo. Guardando in giù si vede Namche laggiù in fondo, così vicina eppure così tanto più in basso. Tutto attorno all’anfiteatro, dalle profondissime gole che lo circondano, si innalzano pareti rocciose che si perdono nelle nuvole e ci lasciano solo immaginare cosa dev’essere questo posto.
Arriviamo a Khumjung in tempo per fare una sosta pranzo che ci serve, più che per mangiare, per metterci al riparo in un luogo caldo e asciutto. Siamo contenti. Sì, contenti; perché non siamo troppo affaticati, perché l’attrezzatura da bagnato si sta comportando egregiamente, perché se proprio dovevamo trovare la pioggia meglio oggi che è un giorno così, perché comunque tutti hanno detto che il brutto tempo è finito e perché Nabaraj ha detto che nel pomeriggio si apre. E soprattutto perché siamo qua in mezzo a queste montagne, tanto alte che non se ne vede la cima, a fare il nostro primo trek himalayano. 

Purtroppo anche Nabaraj, nel suo piccolo, si sbaglia. Usciamo dal ristorantino e piove ancora come se dovesse continuare per sempre. Solo per onorare il programma della giornata riguadagnamo la quota dell’Everest View Hotel (sì, perché Khumjung è più in basso) da cui ovviamente non godiamo di alcuna favolosa vista. Prima di affrontare l’impervia discesa verso Namche insistiamo perché Nabaraj accetti uno dei nostri poncho; non possiamo vederlo con quello straccetto di plastica sotto il diluvio. Ci vuole parecchio prima che lo prenda, ma alla fine cede e tutto contento se lo infila e letteralmente ci sparisce sotto. E anche noi ci sentiamo un po’ meglio. Ma vuoi che uno non si debba portare qualcosa per ripararsi in una giornata del genere!?
Solo dopo una settimana, proprio qui allo stesso view point, scopriremo la verità. Sarà lo stesso Nabaraj a confessarci che “quel giorno” – cioè oggi – non prese niente per ripararsi perché era sicuro si trattasse del solito scroscio che in un paio d’ore passa e va, lasciando spazio al sole per intere settimane. La realtà, nostro malgrado, sarà ben diversa e lo scroscio in effetti passerà, ma solo dopo tre giorni.
Dunque scendiamo, scivolando su un composto di fango a cacca di yak, ripassando dalla pista che adesso è un lago di fango; torrenti d’acqua scendono insieme a noi sul sentiero e Namche Bazar è solo un indistinto gruppo di tetti colorati tra il grigio delle nuvole. Le cime tutto intorno si possono solo immaginare.
Comincia a venirci qualche dubbio e nei nostri discorsi il tema meteo diventa una costante: intervistiamo tutti, dagli escursionisti che scendono ai gestori del lodge, e tutti ci dicono che è tutto passato, che non c’è problema, che adesso si sistema tutto. Nel frattempo dal forum ci arrivano notizie molto meno incoraggianti, perché pare che a Lobuche stia nevicando. Poveri quelli che sono lassù, ma noi dobbiamo arrivarci fra più di tre giorni, ora che siamo là si è sciolta tutta. In realtà non tutti sono concordi e il buon Nabaraj non si sente di fare previsioni perché alcune delle sue fonti parlano di un giorno, altre di tre, altre ancora di cinque. Non ci vogliamo neanche pensare. Ci dice di pregare molto. Staremo a vedere. 

Prima di rientrare in camera scopriamo che l’acqua calda della doccia, quella del bagno al primo piano, funziona anche senza chiedere il permesso. Neanche avessimo trovato la fonte dell’eterna giovinezza ci infiliamo dentro e furtivi come ninja ci laviamo gratis nel giorno in cui avevamo previsto di non poterlo fare. E poi, come se la sorte avesse improvvisamente deciso di sorriderci, nel bagno accanto Sabrina trova un preziosissimo rotolo di carta igienica, praticamente intero, dimenticato da qualche scellerato ospite del lodge. Non ci pensa un secondo: lo fa suo e ce lo mostra come un favoloso trofeo di caccia.
Farà un po’ sorridere tutto questo, la speculazione della doccia gratis, la carta igienica, le bevande comprese o non comprese, i tovaglioli, ma analizzando a freddo la situazione ci rendiamo conto che in quei momenti si crea un insieme di condizioni che rende “normale” questo tipo di comportamento. Sarà che fino a pochi giorni prima la cifra per una doccia e un rotolo di carta bastava per cenare tranquillamente in due, sarà che ci sembra un furto far pagare un litro di acqua del torrente bollita sul fuoco, sarà che le condizioni sono quelle che sono… insomma in quei momenti infilarsi di nascosto sotto una doccia sembra la cosa più giusta, più furba e più normale del mondo.
E pensare che la mattina dopo scopriremo pure una presa elettrica funzionante in camera, proprio dietro al letto. Averla vista prima! Sì, perché anche attaccare un caricabatterie alle prese è a pagamento. 

Dopo sei ore di pioggia sulla testa non abbiamo voglia di uscire di nuovo in paese, così andiamo a dormire presto più stanchi di quanto avremmo voluto essere. Questo doveva essere un semplice giorno di acclimatamento, ma le condizioni meteo ci hanno fatto faticare più del dovuto. Dobbiamo riposare bene perché domani sarà un giorno duro: si va a Tengboche.
Il rumore della pioggia ci fa addormentare e accompagna gli ultimi pensieri e le ultime speranze: domani sarà bel tempo, rivedremo l’Everest da Tengboche e arriveremo quasi a 4000.
 

lunedì 14 ottobre: NAMCHE BAZAR – TENGBOCHE
Non serve guardare fuori. Il rumore che arriva dal cortile è lo stesso di ieri sera, anzi più forte e deciso. Diluvia. Non è il caso di abbattersi troppo, sarà la coda della perturbazione di ieri, andando verso Tengboche incontreremo il bel tempo, non può essere diversamente. La faccia di Nabaraj in sala colazione è un po’ tirata, non ci dice niente di spiritoso come al solito, ma solo informazioni tecniche sul percorso. Mmmh… forse anche lui è seccato all’idea di dover camminare ancora sotto la pioggia.
Non ci pensiamo, facciamo il nostro breakfast, paghiamo la nostra deliziosa acqua bollente con le gocce di cloro e ci travestiamo ancora come sub prima dell’immersione. E poi via, nel diluvio.
Piove veramente forte, dobbiamo indossare anche il poncho sulle giacche impermeabili per proteggerci un po’ di più. Non tengo neanche la macchina fotografica a portata di mano, tanto sarebbe impossibile usarla senza farla annegare.
Lasciamo Namche ridendo, letteralmente in un fiume di acquafangocacca, con una leggera prevalenza di acqua. La salita per uscire da Namche è veramente brutta in queste condizioni e arrivare asciutti al solito viewpoint del museo è già un bel traguardo. Ora ci aspetta un comodo tratto in piano e poi la lunga discesa fino al fiume, prima di affrontare la lunghissima salita verso Tengboche. E’ una costante di questo trek: essendo i paesini arroccati in cima alle alture ed il sentiero quasi a fondovalle, vicino al fiume, ogni giorno si perde gran parte della quota che si è guadagnata il giorno prima per poi risalire fino al paese successivo. In pratica oggi scenderemo di circa 400 metri per poi dover risalire di 800.
Per fortuna non c’è vento forte e quel poco che c’è non ci spinge la pioggia in faccia. Magra consolazione, un po’ come uno che sta annegando e si rallegra perchè almeno l’acqua non è fredda.
Incontriamo gruppi di escursionisti che scendendo ci augurano una sorte migliore della loro. Troviamo anche gruppi di alpinisti che sono dovuti letteralmente fuggire dalle quote più alte a causa della neve e delle proibitive condizioni meteo. Alcuni dicono di aver avuto paura di rimanere bloccati lassù. Non tutti concordano sull’evoluzione del tempo, alcuni dicono che adesso arriva il bello, ma i più sembrano piuttosto pessimisti e parlano apertamente di stagione rovinata.
Ogni volta ci tocchiamo tutto quello che possiamo toccare e continuiamo concentratissimi a tenere tutte le cose sacre alla nostra destra: bandiere, sassi, ruote, cani, carretti… tutto quello che incontriamo, non si sa mai, metti che ha qualcosa di santo nascosto.
Mentre continuiamo in falsopiano metto Sabrina davanti a tutti, a fare l’andatura. Non che avesse bisogno di un gesto simbolico, ma la tenacia e l’orgoglio che mette in questo trek vanno in qualche modo glorificati. Non l’avessi mai fatto. Forse per l’eccitazione, forse per non voler sembrare quella che va piano… parte a razzo con un ritmo insostenibile e in cinque minuti si ritrova da sola oltre Nabaraj che ride come un matto, con quella sua espressione timida e furba al tempo stesso. Meglio farla stare dietro – dice - se no stasera arriva al Khala Pattar. Magari!
Nonostante la pioggia riusciamo a vedere la vallata, che anche così ci sembra favolosa. I piccoli paesini che attraversiamo sono avamposti popolati da piccole persone che cucinano, lavorano il legno, sono indaffarate in mille occupazioni. I portatori continuano a portare, alcuni li vediamo barcollare sotto immensi carichi, spesso interi pannelli di legno larghi più di due metri che nel vento diventano pericolosissime vele. Almeno li riparano dalla pioggia. Non si può immaginare un mondo così senza vederlo: una realtà parallela, una dimensione a parte fatta di gente che va a piedi, di yak e scarpe rotte, di indumenti logori lasciati da chissà quale campione chissà quanti anni prima. Quasi un non-luogo in uno dei luoghi più belli, affascinanti e alti del mondo. 

E’ quasi mezzogiorno quando arriviamo al piccolo guado del torrentello a fondovalle. Solo che con tutta questa pioggia il torrentello è quasi un fiume e il guado non è più così piccolo. Niente di impossibile, ci sono grossi sassi su cui camminare, però l’acqua è alta, ci passa sopra, abbiamo un po’ paura di scivolare e alla fine ci tocca mettere i piedi a mollo prima di balzare dall’altra parte.
Da qui comincia la salita. Abbiamo mosso solo pochi passi e subito perdiamo il sentiero. Cioè, non è che lo perdiamo, solo che una recente frana l’ha cancellato completamente. Seguiamo Nabaraj tra i massi, sempre guardando in alto che non si sa mai e in pochi minuti siamo di nuovo sulla pista. Ora la pioggia sembra perdere un po’ di forza. Lo sapevo che non poteva continuare così, adesso vedrete… smette di sicuro. Intanto comunque continuiamo a salire. E’ dura, molto dura. Superiamo un tornante dopo l’altro, ci sembra di non progredire molto, ma guardando indietro vediamo il fiume sempre più lontano, sempre più in basso. Gli alberi, ancora fitti sui pendii, e le nuvole non ci fanno vedere la cresta, ma sappiamo che prima o poi dovremo arrivare in cima.
Tanti trekkers, tantissimi, troppi per i nostri gusti, scendono con le facce scure e ci benedicono: “good luck! … we couldn’t get the base camp…”. Noi salutiamo tutti e facciamo finta di sentire solo quello che ci va di sentire, mentre la salita continua e i portatori in ciabatte ci superano tagliando per il bosco, su tracciati che neanche una capra di montagna. Non ci supera nessuno, eppure non siamo velocissimi. Forse davvero sono pochi quelli che salgono. Elena e Matteo sono quasi sempre davanti, hanno un ottimo passo, sono bravi. Sarà che hanno dieci anni in meno. No, questa è la scusa che mi racconto da solo, la verità è che sono forti. Abbiamo fatto bene a portarli con noi.
Alla fine, dopo quasi tre ore di ascesa, arriviamo a Tengboche. Nabaraj indica in alto sui pendii e ci mostra la neve fresca caduta da poco: quella non c’è di solito, dice, e neanche quella e quella… in pratica col dito fa mezzo giro della valle. La spianata davanti al grande gompa tibetano è allagata, ma ormai non ci facciamo caso e ci soffermiamo invece sull’imponenza della costruzione. Col cielo limpido e le cime innevate sullo sfondo dev’essere uno spettacolo. Più tardi probabilmente riusciremo ad assistere ad una cerimonia all’interno: bisogna attendere il suono del dungchen (la caratteristica lunga tromba tibetana).
Siamo decisamente provati e per fortuna i portatori hanno già messo i borsoni nelle nostre stanze, così che possiamo trovare un po’ di conforto al riparo da una pioggia che invece di smettere cade sempre più forte. Le stanze sono come al solito semplici, essenziali, ma ci sembrano suite di lusso quando ci distendiamo sui sacchi a pelo, buttati al volo sui tavolacci che fanno da letto. E’ un po’ freschino.
La piccola sala comune invece è fin troppo calda, strapiena di ospiti bagnati e infreddoliti che lottano per un posto in prima fila, per se e per i propri indumenti, davanti all’unica grande stufa a legna. Ci sarà da divertirsi stasera all’ora di cena.
Non ci fermiamo a lungo perché è già ora di andare alla cerimonia dei monaci: il ruggito grave del dungchen riempie l’aria e ci fa ricordare che il Tibet è vicinissimo, proprio oltre quelle montagne a nord. All’interno del monastero, oltre il cortile di ingresso, c’è una grande sala dove trovano posto circa venti monaci e un numero più che doppio di turisti e curiosi. Il rito è decisamente semplice e monotono, non nel senso di noioso, quanto proprio ripetitivo. A turno, con un ordine ed una gerarchia che comprendiamo solo in parte, i religiosi attaccano canti e preghiere accompagnati dal caratteristico suono di tamburi e campanelle. Ci sono anche alcuni, probabilmente i più giovani, che portano tazze di bevande fumanti e vari cibi ai più anziani seduti a gambe incrociate sugli scranni. Contrariamente alle previsioni il rito sembra decisamente lungo e dopo mezzora molti turisti hanno già saziato la loro curiosità e lasciano l’assemblea. Dopo un’altra mezzora di litanie e tamburelli i più decidono di uscire e rimaniamo noi quattro con pochi altri, forse dieci o dodici in tutto. E qui la sorpresa: proprio mentre sentiamo che la stanchezza per il lungo cammino ci sta quasi facendo addormentare, uno dei monaci addetto alla consegna dei cibi e delle bevande allarga il giro e viene da noi. Con il più semplice e gentile dei sorrisi si inchina e ci porge il vassoio con pane tibetano, caramelle, pezzi di cioccolato grezzo e pop corn. Sì, pop corn. Accettiamo con grande piacere l’offerta del monaco e ringraziamo in modo un po’ goffo e certamente non appropriato, ma sicuramente sincero. Ripasserà ancora per un secondo giro di assaggi e poi ancora con un cartello che ci invita a lasciare la sala prima che lo facciano i monaci. 

Nel frattempo s’è fatto buio e servono le lampade frontali per non mettere i piedi nelle pozze più profonde. E’ un mondo di fango su cui continua a cadere tanta acqua che sembra non dover smettere mai. Nabaraj sfodera il suo ombrellino di tela, di quelli che se tira vento ti si girano al contrario e che anche se te li metti sulla testa ti bagni lo stesso. A noi basta il cappuccio della giacca per raggiungere la sala della stufa. Sì, la stufa: ci sono due piani di panche che la circondano dai quattro lati, una sopra l’altra, con decine di indumenti appesi, sovrapposti, buttati a casaccio, tutti a gocciolare su un mare di scarponi che ricopre completamente il pavimento. E dietro a questo improvvisato recinto un’umanità varia, chiassosa, indaffarata, ma non allegra come ci si aspetterebbe in un luogo favoloso come questo. Da un rapido giro di consultazioni pare che siamo gli unici a salire, gli unici che in questa giornata infernale sono venuti su da Namche, gli altri scendono. Hanno trovato neve, tanta neve. Qualcuno parla di vere spedizioni alpinistiche che hanno dovuto rinunciare, altri dicono che al campo base dell’Everest c’era il rischio di rimanere prigionieri della neve, tutti confessano di non essere riusciti a raggiungerlo.
Ormai non c’è più nessuno che fa previsioni, sembrano quasi tutti rassegnati ad un fato avverso, ad un’annata tanto speciale quanto infame. Le guide dicono di non ricordare un mese di ottobre come questo negli ultimi dieci anni, anzi venti anni, anzi non lo ricordano proprio per niente in tutta la vita. Esagerati! Per due giorni di pioggia!
Noi sfoderiamo una serenità che non abbiamo mentre il gestore del rifugio ci augura le migliori fortune e ci sforziamo di non farci ossessionare dal pensiero del meteo. Non vogliamo rovinarci quella che comunque è una meravigliosa esperienza, non vogliamo sprecare energie per pensare a cose che non possiamo dominare e soprattutto non vogliamo perdere di vista le nostre scarpe che nuotano nella marea di quelle degli altri sotto la stufa. Mangiamo con meno appetito del solito, forse a causa dell’altitudine, evitando ogni tipo di carne perché Nabaraj ci ha spiegato che la carne di oggi è sicuramente poco fresca, visto che nessuno per giorni è potuto salire a portare provviste. Ci consiglia invece di consumare riso, zuppe di verdure e patate da qui alla fine, finchè non torneremo a Namche, proprio per evitare il rischio di star male a causa del cibo. E allora vai col risino di verdure e le patate bollite, un po’ di sano hot lemon e magari una garlic soup per contrastare gli effetti dell’alta quota. Tutto rigorosamente bollente, è ovvio. 

Restiamo in sala finchè le scarpe e le nostre cose non sono asciutte e poi ce ne andiamo in camera a riposare perché veramente la giornata di oggi è stata dura e quasi tutti soffriamo di qualche lieve sintomo da raffreddamento. Per forza!
Con la pioggia è tutto più scomodo di quanto potrebbe essere; il bagno che ci dicono di usare è un buco per terra sotto quattro lamiere distante un trentina di fangosissimi metri dalle camere. Non c’è niente da fare, è buio e piove e ci si bagna e ci si sporca, tanto che verrebbe voglia di non andarci, ma come si fa… Io sento anche qualcosa di strano, di quelle cose che è meglio sbrigarsi prima che sia troppo tardi: per fortuna ce la faccio. Tempo di chiudere la porta della camera ed ecco ancora la stessa sensazione di urgenza e allora via, rivestirsi, ricoprirsi, ribagnarsi, risporcarsi nel fango e in tutto quello che c’è là sotto quelle lamiere. Sono provato e bagnato quando finalmente mi infilo nel sacco a pelo e cerco di dormire. Non so ancora che quella che arriva sarà la notte più tormentata dei miei ultimi quarant’anni. Mi sveglierò ancora una volta e poi un’altra e poi un’altra ancora, cinque volte provando a rivestirmi in tempo per raggiungere quella cosa laggiù in fondo. Scoprirò presto che il tempo non c’è, che l’urgenza è troppo urgente, che i sacchetti di plastica sono straordinariamente versatili e che un cestino portarifiuti sa rivelarsi un favoloso alleato nel momento del… bisogno. E quando ormai non ho più niente da dare e penso che i miei giorni finiranno così, in modo tanto inglorioso, sento con sollievo che le compresse che ho trangugiato come fossero caramelle cominciano a fare effetto e per fortuna riesco a prendere sonno, pregando che agli altri non sia toccata la mia stessa sorte.
 

martedì 15 ottobre: TENGBOCHE – DINGBOCHE
Piove ancora. Forse un po’ meno forte rispetto a ieri, ma il mio primo pensiero conscio non va certo al confronto tra le quantità d’acqua, quanto piuttosto a come sto. Aaah… aveva proprio ragione la mia nonna… quando c’è la salute c’è tutto!
Sto bene. Mi sembra incredibile non sentirmi troppo stanco e provato dopo una notte come quella appena trascorsa. Anzi, adesso sono così avvelenato che l’unico desiderio che ho è quello di camminare per arrivare dove voglio arrivare, per andare dove devo andare. Adesso – mi dico - non mi ferma più nessuno; a meno che non ci siano due metri di neve. Mi sento quasi in una dimensione parallela, non mi interessa più il tempo, non m’importa se piove molto, poco o non piove affatto: adesso voglio solo andare avanti, più determinato che mai.
Sabrina sta bene per fortuna, non sembra accusare alcun malessere; Elena e Matteo pure, a parte qualche piccolo disturbo da raffreddore. Perfetto. Racconto in due minuti la mia odissea notturna, più con l’intenzione di far ridere che quella di farmi commiserare; due parole con Nabaraj, tanto per informarlo dei fatti, e poi senza battere ciglio mi trovo già in cammino con lo zaino in spalla.
Anche oggi si scende parecchio prima di trovare il solito tratto piano e la risalita verso Dingboche. Nonostante ci sforziamo di apparire sereni e tranquilli cominciamo a temere il peggio e abbiamo la testa piena di pensieri neri, molto più neri delle nuvole che ci accompagnano. Finalmente però stiamo uscendo dalla zona boscosa, vediamo la roccia, le pareti quasi verticali e le creste dure e aspre che ci aspettavamo. Adesso sì che siamo in un mondo diverso dal nostro, con quelle cime bianche che si lasciano vedere solo di sfuggita nella coltre grigia. Siamo così abituati alla pioggia, o forse siamo così rassegnati, che parliamo solo di quello che c’è attorno a noi. E’ innegabile tuttavia che siamo deboli, non malati, ma certamente meno forti di quanto dovremmo essere a questo punto del cammino. 

Sui pendii che scendono ripidi verso il fiume c’è ormai una linea orizzontale chiaramente visibile: è la linea della neve, che segnala in maniera evidente la quota oltre la quale la nostra pioggia infame è diventata più densa. Nabaraj dice che di solito quella riga non c’è e che è molto raro trovare la neve qui, in questa stagione. Bene - gli diciamo - che culo! Lui ride anche se non ha capito la parola, ma il senso evidentemente gli è chiaro.
Mentre percorriamo il tratto piano ci sembra quasi di vedere qualche puntino azzurro tra le nuvole. Forse è suggestione, forse lo vediamo perché lo vogliamo vedere, ma è certo che possiamo toglierci il poncho perché piove un po’ meno. Prendo coraggio, ignoro i sintomi del mal d’altura e quelli influenzali e sfido apertamente il cielo estraendo, per la prima volta in tre giorni, la macchina fotografica dallo zaino. Faccio anche qualche foto mentre la linea bianca è sempre più vicina a quella nera del sentiero.
Poco prima di Dingboche inizia la neve. Non qua e là sulle pareti rocciose, proprio sul sentiero: ci camminiamo dentro. Quasi non piove più, ma siamo stanchissimi e infreddoliti; tutti i piccoli malesseri sembrano diventare grandi proprio adesso o sembrano crescere insieme alla quota sul livello del mare. Tsè… il mare, oltre quattro chilometri più in basso. E’ incredibile pensare di essere in un posto in cui le montagne cominciano quando da noi finiscono, come se ci fosse una Marmolada intera sopra la Marmolada e sopra ancora un altro pezzettino. E’ un paradiso per chi come noi ama la montagna. Non c’è niente a parte qualche agglomerato di case, il sentiero e le colonne di yak che vanno su e giù a portare provviste. Ci sembra quasi di vedere le file di portatori che nel secolo scorso salivano da qui per andare ad attaccare le vette più alte del mondo, ci sembra di sentire la forza e il coraggio degli alpinisti che venivano qua e si trovavano isolati da tutto come se fossero stati su un altro pianeta. Davvero ci rendiamo conto che organizzare una spedizione quassù o un viaggio sulla Luna doveva essere più o meno la stessa cosa. E pensare che oggi ci sembra normale parlare di telefoni satellitari, di wi-fi e di connessione internet nei rifugi. 

Dopo un tornantino si apre una lunga e ampia spianata e là in fondo si vede Dingboche, un insieme di tetti colorati, di lamiere e muri tirati su un po’ così, tutto immerso nello scenario sereno che solo la neve sa creare. Ai lati favolose pareti rocciose, a destra l’Ama Dablam che sovrasta tutto con la sua superba doppia cima. E’ un’immagine stupenda. Purtroppo non ne godiamo quanto dovremmo perché siamo veramente provati, la giornata è stata infernale e l’ultimo tratto ci sembra infinito. Camminiamo in trenta centimetri di neve. In alcuni tratti il sentiero sparisce e seguiamo quelle che sembrano tracce di qualcuno passato prima di noi. Poca roba. A volte ci troviamo davanti veri e propri laghetti, altre volte le pozze d’acqua sono nascoste dalla neve fresca, altre ancora ci troviamo troppo in alto o troppo in basso rispetto a quella che dovrebbe essere la posizione del sentiero vero.

All’inizio del paese scopriamo che il rifugio che dovevamo occupare non ha posto e quindi staremo in un altro. Il motivo è semplice: da tre giorni nessuno riesce ad andare su e tanti sono tornati giù dalle quote più elevate. Nessun problema, se non che questo “altro rifugio” è alla fine del paese, quasi un chilometro più avanti. Dingboche è sparpagliata su una linea lunghissima e il pensiero di dover fare ancora un po’ di strada ci uccide. Per fortuna non piove più.
Mentre ci buttiamo sui sacchi a pelo per riprendere un po’ di forza ci rendiamo conto che i tre giorni di marcia sotto la pioggia stanno ora reclamando il loro tributo. Sarà il mal di montagna, il freddo o altro, non lo sappiamo; di sicuro siamo deboli. Nabaraj ci cura e ci custodisce come una mamma, ci riempie dei suoi rimedi miracolosi, dalla schifosa garlic soup all’hot lemon, dal balsamo di tigre da spalmare sulla testa all’acqua e sale bollente. Io prendo mezza compressa di Diamox ed Elena fa lo stesso, Matteo invece sembra avere il mio stesso malessere della notte, ma in forma decisamente più lieve, l’unica che pare completamente a posto è Sabrina, quella che per tutto il percorso ha quasi sempre chiuso la fila e che adesso sembra il cavallo giusto su cui puntare un euro per la vittoria finale. Ma nessuno molla, nessuno si abbatte, nessuno pensa di cedere un centimetro. Mentre li guardo mi dico che siamo proprio una squadra forte e che sono contento di aver intrapreso questa avventura con questi eccezionali compagni; prego solo che il tempo ci conceda una chance e che ci permetta di ottenere quello che meritiamo. 

La sala comune è calda e accogliente, sembra un rifugio alpino con la stufa e le panche di legno sotto le finestrone affacciate sulla valle. Che spettacolo questa vallata! Siamo già innamorati dell’Ama Dablam. Ancora più bello adesso che le nuvole lasciano vedere larghe parti di cielo e che la luna può illuminare tutto.
Seduti ai tavoli ci sono molti escursionisti e dai discorsi che fanno capiamo che i trenta centimetri di neve che vediamo qui sono solo l’aperitivo di quello che ci aspetta. Come temevamo, alle quote più elevate la pioggia che abbiamo trovato fin qui è stata neve. Non possiamo neanche immaginare quanta ne può cadere quassù in tre giorni. Dicono che verso Lobuche ce n’è molta, mezzo metro sopra Dingboche e poi di più, mentre nella zona di Gorak Shep parlano di metri, anzi per la precisione Nabaraj ci dice che ce n’è più di due gambe. Adesso capiamo perché sono fuggiti tutti e ci rendiamo conto che in queste condizioni, se il tempo non migliora, è tecnicamente impossibile tentare qualsiasi ascesa al Khala Pattar. Alla precisa domanda Nabaraj risponde testualmente nel suo inglese-nepalese “not impossible, but more more difficult”, ma si vede che non ci crede molto neanche lui.
Dobbiamo decidere cosa fare, ma è difficile rimanere perfettamente lucidi e sensati in una situazione così emotivamente complicata. Discutiamo sulle varie opzioni, preghiamo per il bel tempo e concludiamo che domattina decideremo il piano in base alle condizioni meteo. In realtà nessuno di noi ha la benché minima intenzione di tornare indietro proprio adesso, a pochi passi dalla vittoria. Di sicuro non possiamo permetterci di perdere neanche un giorno perché poi non avremmo modo di raggiungere Lukla in tempo per il volo di ritorno in Italia.
O si va su domani o non si va più.
 

mercoledì 16 ottobre: DINGBOCHE – LOBUCHE
L’orologio segna un doppio 6, le ore e la temperatura, ma in camera c’è più luce del solito. Sarà il bianco della neve. Invece non è solo la neve, il cielo è limpido, senza una nuvola. Lo spettacolo della valle di Dingboche, tutta bianca con quella fila di cime di qua e di là, è una cosa che non si riesce neanche a descrivere. Il riflesso del sole sulla neve ci abbaglia, non riusciamo a tenere gli occhi aperti, ma non riusciamo a distogliere lo sguardo, siamo quasi ipnotizzati di fronte a quello che vediamo. Allora è così che doveva essere! Un minuto di visione ci ripaga di tutti gli sforzi e quasi ci fa dimenticare quello che è stato fino a ieri. Di fronte a tanta meraviglia siamo quasi disposti a perdonare. Quasi. Il sole però ci fa anche comprendere meglio la realtà delle cose; solo ora che vediamo tutto ci rendiamo conto della situazione, di quanta neve sia caduta qui, in quella che è la zona meno colpita di tutte.

A colazione non sappiamo se essere contenti o arrabbiati. Contenti perché c’è il sole, perché è tutto bellissimo, arrabbiati perché sappiamo che probabilmente non basterà. Doveva arrivare ieri o il giorno prima. Come farà questo sole a sciogliere i due metri di neve del Khala Pattar entro domani?! E se anche dovesse sciogliere tutto, quale mare di fango e acqua troveremmo lassù, a Lobuche e oltre?! Però non possiamo pensare adesso a quello che sarà stasera o domani, bisogna decidere cosa fare. Cosa fare: come si fa a rinunciare di fronte ad una giornata del genere? E’ tutto perfetto, a parte noi. La notte è stata un po’ travagliata per tutti e lo sforzo dei tre giorni di pioggia è ben disegnato sulle nostre facce. Ma come si fa?! L’Ama Dablam risplende come un gioiello e sembra benedire ogni idea, ogni tentativo, ogni impresa. Andiamo! 

L’acqua bollente con le gocce di cloro fa più schifo del solito, la neve è alta e si attacca alle scarpe che si attaccano al terreno, gli zaini sembrano più pesanti e l’aria entrando quasi inciampa nei polmoni. Ma chissenefrega! Stiamo camminando in uno scenario unico al mondo, ci siamo dentro e siamo qua a fare foto a 360 gradi. Al piccolo stupa che sovrasta il paese ci fermiamo e chiediamo una foto a Nabaraj: siamo noi quattro, uniti e sorridenti sotto le bandiere di preghiera, attorno a noi è tutto azzurro o bianco. Da lì comincia il vero cammino verso Lobuche.
Dai che ce la facciamo, dai che adesso il sole fa presto a sciogliere tutto, dai… forza ragazzi, andiamo avanti, ce la facciamo!
Invece è dura. Durissima. Il sole picchia e nonostante la crema sentiamo che ci brucia la faccia, il sentiero si vede e non si vede, la neve è veramente troppa e fatichiamo tantissimo per avanzare, tutti i nostri malesseri sono amplificati. Ogni cento metri siamo fermi con la scusa di fare una foto, di bere un sorso d’acqua, di soffiarci il naso, di aspettare l’altro che beve o che si soffia, di far passare un portatore. Non c’è praticamente nessuno. Lottiamo per un’ora, poi un’altra, poi ancora un po’, ci rendiamo conto di essere troppo lenti: questo tratto di strada l’avremmo dovuto fare in metà tempo.

Attorno a noi è tutto bianco. Uno spettacolo favoloso e terribile al tempo stesso. Ogni tanto sentiamo un tuono in lontananza, la prima volta ci giriamo per cercare qualcosa che non vediamo: è una valanga e quello è il rombo che produce. Non siamo in pericolo e non ne vediamo neanche una, però sentirne il ruggito così da vicino fa un certo effetto. Davanti il sentiero si perde nel bianco e spesso dobbiamo superare pozze insidiose che non vogliamo misurare finendoci dentro. Ci mancherebbe solo questa.
Siamo lenti. Nabaraj dice che per lui non c’è problema, però continuando di questo passo arriviamo a Lobuche che è buio e sarebbe meglio evitare di trovarsi in mezzo a tutto questo senza neanche vedere dove si mettono i piedi. Dice che mancano ancora 6-7 ore… Ma come?! Dovevamo impiegarne 7 in tutto! Sì, però la neve ci rallenta – dice – ci vuole di più, molto di più. E poi tra poco è più alta, ce ne sarà una gamba.

Dai, dobbiamo andare un po’ più veloce… forza... proviamoci! Non ci riusciamo, sembra di avere una corda invisibile che ci trattiene, avanziamo ma i passi sono brevi, brevissimi, troppo corti. Siamo troppo lenti. Lottiamo ancora un po’, forse un’ora, forse meno, Nabaraj è solo un po’ più avanti che ci aspetta, ma io lo vedo lontanissimo, così come lontanissima e altissima è la cresta che dobbiamo superare per prima. A quanto saremo? Boh… 4600… 4700... forse 4800… non ha nessuna importanza. Vedo noi che arranchiamo su questo sentiero che non è un sentiero e all’improvviso mi sorprendo a dire una cosa che non avrei mai voluto dire: “Ragazzi…”. Mentre pronuncio la prima parola già rivedo tutto quello che è stato e quello che non è stato. Le mail di Om, le foto di chi è già passato da qua, l’eccitazione del provarci, gli sposi che vengono con noi, il volo verso Lukla, il sole, la pioggia, Nabaraj col sacchetto in testa, la visione della punta dell’Everest, le ruote di preghiera, il cestino col sacchetto dentro, l’hot lemon e il lassi, noi che saliamo e discutiamo su come metterci in posa in cima al Khala Pattar per non coprire le vette dietro di noi, la gioia, il trionfo, l’emozione, la neve…
"Ragazzi… dobbiamo essere onesti".
Mai e poi mai avrei pensato di dover arrivare a questo punto, mai neanche negli incubi più neri, mai in nessuna catastrofica previsione, in nessun piano alternativo c’era questa scena. Le condizioni però sono veramente proibitive. Non ce la possiamo fare. Nabaraj prende atto della decisione e anche se la approva con decisione si vede che è dispiaciuto. Non tanto per lui, che tanto fra un po’ ci torna, è dispiaciuto per noi.
Col cuore spezzato ci voltiamo e torniamo indietro. Abbiamo perso il Khala Pattar. Sabrina piangeva prima ancora che io finissi di dire “ragazzi”; mi conosce troppo bene, sapeva già cosa avrei detto. Io mi trattengo solo per il tempo di girare le spalle e prendere la testa del gruppo, che un minuto fa era la coda. Parto da solo, davanti a tutti, non mi giro neanche a vedere quanto sono bagnate le facce degli altri. Ho perso il Khala Pattar. Non so neanche se sono deluso, arrabbiato, sollevato, forse tutto insieme, forse sto sognando, forse sono morto. No, sono vivo. Maledico il cielo, il mondo, me stesso, la pioggia, la neve, il fato, la sorte, tutte le divinità che conosco e perfino gli invidiosi che gufano da casa, maledetti stramaledetti loro. Non so neanche se lo faccio a voce alta o solo nella mente. Mi viene voglia di buttarmi di lato nella neve, di lasciarmi cadere a peso morto con la faccia in giù. E poi cosa faccio, aspetto che mi raggiungano per consolarmi?! No, non me ne frega niente. Procedo. Ricalpesto la neve già calpestata e piango, piango per tutto il percorso come un bambino senza regalo di natale, con le lacrime che scendono da sole senza controllo, quasi non vedo dove vado. Sono velocissimo, dietro di me non sento nessun rumore. Arrivo allo stupa in un secondo, forse due, mi giro e gli altri non ci sono; li vedo lontanissimi nel bianco, uno, due, tre, Nabaraj… ci sono tutti. Trovo la forza e il coraggio di fare qualche altra foto, è uno spettacolo stupendo.
Ridiscendo in paese e mi bagno tutto: il sole ha già iniziato a sciogliere la neve che adesso forma rivoli d’acqua e fango, pozzanghere e piccole slavine che ad ogni passo mi ricoprono le scarpe. Scivolo un passo sì e un passo no. Maledizione, che situazione di m… Se qui è così, chissà cosa poteva essere lassù. Ma come facevamo ad arrivarci, lassù!? Era impossibile, dai. Mi fermo poco prima del lodge, chissà se dormiremo ancora qui, meglio aspettarli. Del resto, dove posso andare? Mi appoggio a un muretto, qualcuno mi passa accanto, ma non lo vedo, non mi sposto neanche per farlo passare. Adesso sì che sono morto. No, neanche adesso. Per fortuna ho gli occhiali, non mi vede nessuno, riesco a ricompormi un pochino. Eccoli che arrivano. 

Seduti in fila sulle stesse panche che avevamo lasciato stamattina non abbiamo forza e voglia sufficienti per parlare. Del resto non c’è molto da dire o da commentare. Abbiamo perso il Khala Pattar. Non serve spiegare niente a chi ha i nostri stessi sentimenti, quindi rimaniamo in silenzio e cerchiamo di riprenderci. Siamo provatissimi. C’è un colpevole? Forse no, forse siamo solo stati sfortunati, forse non eravamo abbastanza forti per sostenere condizioni meteo del genere. Molto più probabilmente c’era troppa neve per camminare ancora e se anche fossimo andati avanti non avremmo comunque potuto raggiungere le quote più alte. Dobbiamo ammettere che è stata la scelta migliore che potessimo fare, forse l’unica decisione che potevamo e dovevamo prendere. Mi costa tantissimo ammetterlo, ma in queste condizioni non ce la potevo fare.
Sabrina cede di schianto, all’improvviso. Sta male, non tanto da non camminare, ma abbastanza da non alzarsi dal sacco a pelo. Nabaraj le somministra tutti i suoi rimedi miracolosi, ma io sono convinto che le cause non siano fisiche, quanto piuttosto morali. E’ un colpo difficile da assorbire, una delusione che non digeriremo tanto facilmente. Non riesco a darmi pace, neanche oggi che a quasi tre mesi di distanza scrivo il diario. Ma possibile che proprio a noi dovesse capitare una stagione come questa?! Nabaraj dice che la maggior parte degli escursionisti che ha accompagnato si sarebbe fermata ben prima, che siamo stati bravi ad arrivare fin lì. Magra consolazione.
Lo stesso Ohm, quando l’ultimo giorno lo andremo a salutare a Kathmandu, ci farà i complimenti e dirà che in trent’anni di attività non ha mai visto una cosa del genere. Inoltre ci confesserà che se anche fossimo arrivati a Lobuche non ci avrebbero fatto proseguire fino al Khala Pattar perché sarebbe stato tecnicamente impossibile salire. Scopriremo poi a casa, dai notiziari, che il Nepal ha vissuto il monsone più lungo degli ultimi cinquant’anni, tanto lungo che la stagione secca di ottobre in pratica non è esistita. Ma che gran culo abbiamo avuto! Chissà perché queste notizie non ci confortano, ma anzi ci fanno arrabbiare ancora di più. Io sono proprio avvelenato e non dimenticherò mai questa delusione; la prendo quasi come un’offesa personale.
Speriamo che arrivi presto la sera, speriamo di addormentarci e di risvegliarci in fretta, per lasciarci alle spalle queste meraviglie prima possibile. Domani scendiamo con la certezza di stare meglio e la speranza di vedere, almeno sulla via del ritorno, quello che non abbiamo potuto vedere all’andata.   

 

giovedì 17 ottobre: DINGBOCHE – TENGBOCHE
Evidentemente la splendida giornata di ieri è stato un episodio. Quasi una trappola, un inganno per ingolosire chi come noi desiderava più di ogni altra cosa salire più in alto possibile. Stamattina il cielo è di nuovo coperto: non c’è più il bel sole pulito di ieri, ma almeno non piove e ci sono alcuni squarci azzurri. Per come siamo stati abituati ci viene da dire che è una bella giornata. Che stagione assurda abbiamo trovato.
Torniamo verso Tengboche con la chiara e solida consapevolezza che non potevamo fare diversamente, che non potevamo prendere una decisione diversa. Questo non diminuisce certo il dolore e il dispiacere, ma quanto meno ci assolve dalle colpe più gravi. Nonostante tutto qualche sciocco a casa dirà che non poteva andare diversamente, che non siamo alpinisti e che la neve ha solo anticipato un inevitabile fallimento… Gente che al massimo è arrivata al Pordoi in funivia. Passerò interi giorni ad ignorare questi stupidi commenti, tuttavia non dimenticherò. Non dimenticherò nemmeno le parole sincere degli amici del forum che da subito, appena appresa la notizia, ci hanno sommerso con il loro affetto e la loro simpatia. Qualcuno ricorda un pensiero di Edward Whymper, il conquistatore del Cervino, e lo posta tra i nostri messaggi; mi piace ricordarlo ancora una volta, anche se rileggerlo mi è di ben poco conforto: "Provai gioie troppo grandi per poterle descrivere, e dolori tali che non ho ardito parlarne. Con questi sensi nell'anima io dico: salite i monti, ma ricordate coraggio e vigore nulla contano senza la prudenza; ricordate che la negligenza di un solo istante può distruggere la felicità di una vita. Non fate nulla con fretta, guardate bene ad ogni passo, e fin dal principio pensate quale può essere la fine.".
Non bisogna comunque drammatizzare. I problemi veri sono altri e noi non siamo qui a parlare di una tragedia o di un delitto, ma solo di una vacanza in montagna. Anzi, in collina. E’ solo che in quel momento i sentimenti sono così travolgenti che non si può fare a meno di vedere tutto più grande e definitivo di quello che è. E’ un po’ la storia della carta igienica e della doccia. 

Subito la diminuzione di quota ha effetti positivi; metro dopo metro la discesa ci riconsegna le energie. Fuori da Dingboche c’è decisamente meno neve e senza il tormento della pioggia camminare è più facile. Ci sfilano accanto tutte le montagne che all’andata erano solo confusi corpi senza testa, ammiriamo la profondità e l’altezza, ci godiamo finalmente il trek in condizioni più umane.
Siamo veloci, il percorso non sembra difficile e ben presto siamo a metà strada. A tratti esce anche il sole. Ci fermiamo a pranzare presso un bel ristorantino con un’ampia terrazza da cui si vede tutta la valle fino alle creste più alte, laggiù in fondo. Più alte di tutte il Lhotse e l’Everest. Sembrano quasi parte delle pareti in primo piano, in realtà sono parecchi chilometri dietro e quello che vediamo è solo la sommità che emerge da dietro. Tentiamo di misurare i sentimenti che ancora proviamo noi adesso con l’emozione che devono aver provato i pionieri che andavano a conquistare la cima. Contemplare simili scenari è un privilegio che non dimenticheremo mai.
Indugiamo a tavola più del solito, non tanto per fame, quanto piuttosto per fissare più a lungo la cartolina che segna il nostro orizzonte. Quando Nabaraj finge di incamminarsi senza di noi finalmente ci muoviamo e riprendiamo la discesa.
Si cammina bene e chiacchierando arriviamo a Tengboche senza sforzo, decisamente in anticipo rispetto alla tabella di marcia. Purtroppo ormai il cielo è coperto, ma c’è tempo per fare un altro giro al monastero. Stavolta non è prevista alcuna cerimonia, così possiamo entrare e scattare foto liberamente.

Dietro alla costruzione principale ferve l’attività di un cantiere: pare che si stia realizzando un ampliamento. Nessun mezzo meccanico, nessuna gru ovviamente; perfino le assi di legno, quelle lunghe 3-4 metri, vengono ricavate a mano dal tronco intero di un albero. A mano! Due falegnami sono letteralmente sepolti da trucioli grandi come le ciabatte che calzano. C’è un tipo che scava in un buco profondo un paio di metri; con la sua pala però non riesce a gettarsi la terra sopra la testa e allora c’è un altro sul bordo della fossa che lo aiuta tirando una corda legata alla stessa pala. In pratica una catena di montaggio umana, uno spalatore fatto da due uomini. Incredibile. Ogni tanto arriva un portatore con dei tondini di ferro legati sulla schiena, ogni tanto uno con delle tavole di legno, ma vuoi che vengano su a piedi da Lukla o da Namche!? In effetti, pensandoci, è possibile, perché non possono mica usare sempre l’elicottero per queste cose. Un po’ gli yak, un po’ i buoi, un po’ le persone. Mamma mia che popolo! 

Senza la pioggia battente dell’ultima volta lo spiazzo che conduce al lodge è tutta un’altra cosa. Anche il lodge e i suoi spazi sembrano luoghi diversi e decisamente più semplici e comodi da usare. Scopriamo pure che dietro al massiccio portale, che allora trovammo chiuso, c’è la nuova ala della struttura con corridoio coperto e bagni interni funzionanti con un normale impianto di scarico. E pensare che siamo stati costretti ad usare quella cosa di lamiera. E’ innegabile che ora tutto abbia un nuovo sapore e un nuovo aspetto. Le stesse camere sono meno fredde.
Anche in sala non c’è più la stessa ressa e nessuno si accalca per appendere abiti bagnati. Notiamo anche particolari cui non avevamo fatto caso, tipo una foto di Messner appesa in un angolo. Durante la cena lo facciamo notare a Nabaraj, tutti gonfi di orgoglio tricolore, che Messner di qua e Messner di là, che ha fatto l’Everest centocinquanta volte, che una volta è andato su senza ossigeno, un’altra da solo, un’altra bendato con una mano legata dietro la schiena… Lui non fa una piega, ci lascia blaterare un po’ e poi con la faccia furba di chi la sa lunga dice di averlo sentito nominare, ma non sa di preciso chi sia. Aggiunge che le imprese di questo signore non sono poi gran cosa: “qui tutti sono arrivati in cima, anche un mio cugino, anche quelli che non hanno le gambe”. Come sarebbe quelli senza gambe!? Sì, nel cesto, sulla schiena di un portatore. Aaah… beh… giusto… nel cesto! Che stupidi a non averci pensato prima!

 

venerdì 18 ottobre: TENGBOCHE – NAMCHE BAZAR
Passiamo la colazione a discutere allegramente su come potremmo farci infilare in un cesto per andare su anche noi, insieme a quelli senza gambe. Stiamo bene.  La neve sembra una cosa lontana anche se fino a ieri c’eravamo dentro fino al ginocchio. Del resto è inutile continuare a riesaminare le cose come in un infinito replay.
Fuori purtroppo il cielo è coperto e anche dal view point dietro al monastero non si vede niente di speciale. Lancio qualche altra piccola maledizione, tanto per non perdere l’abitudine, imprecando contro questo cielo che neanche mentre ci ritiriamo ci concede un po’ di soddisfazione. Più giù nella valle però ci sembra di vedere un certo chiarore, chissà che andando verso Namche non troviamo un miglioramento.
E allora via, giù per il sentiero a rifare al contrario quella lunghissima salita. Adesso sembra tutto più facile, probabilmente perché lo è davvero e perché più scendiamo e più ci sentiamo forti. Siamo così veloci che cominciamo a pensare di poter anticipare di un giorno il rientro a Kathmandu, del resto una tappa Namche-Lukla era prevista anche nel programma iniziale.
Nabaraj sembra perplesso, forse perché è seccato all’idea di dover modificare la prenotazione del volo o perché teme che gli chiediamo uno sconto per il giorno di trek in meno. Lo rassicuriamo subito e in effetti pare tranquillizzarsi, tanto che comincerà a fare telefonate e non smetterà fino a Namche. A questo punto almeno prendiamoci un giorno in più a Bhaktapur, visto che tra l’altro Elena e Matteo non ne avrebbero avuto neanche uno a causa del volo di rientro anticipato.
Anche oggi come ieri incontriamo tanti escursionisti che incrociando le nostre facce bruciate ci chiedono notizie del tempo, della neve, della situazione alle quote più alte. Mmmh… chissà perché ci sembra di aver già vissuto questi momenti. 

Siamo così rapidi rispetto alla tabella di marcia di Nabaraj che decidiamo di rifare la deviazione per Khumjung, stavolta al contrario, per provare a vedere l’Everest dal collinetta che sovrasta il paese. Ci riusciamo per un pelo, poco prima di raggiungere la sommità, poi le nuvole si richiudono tra noi e le catene più lontane. Almeno abbiamo capito cosa avremmo dovuto vedere da qui.
Capiamo anche cos’è Namche con un po’ di sole, con tutte le montagne che fanno da favolosa cornice all’anfiteatro. Finalmente uno spettacolo degno di questo nome: il paese è letteralmente incastrato in questa gola e le pareti altissime che lo circondano sono molto più imponenti di quanto avevamo immaginato. Ci rendiamo conto che qui in condizioni ottimali ogni giorno è strepitoso. Chissà se mai torneremo per verificarlo personalmente.

 

sabato 19 ottobre: NAMCHE BAZAR – LUKLA
Ormai siamo completamente ristabiliti. Nabaraj ha paura che la strada fino a Lukla sia troppo lunga, ci fa un po’ di terrorismo parlandoci della salita finale. Ma quale salita? Cosa vuoi che sia rispetto a quello che abbiamo fatto finora? L’impressione è che voglia indurci nuovamente a mantenere il volo originario, tra due giorni. Non se ne parla nemmeno: se proprio non è possibile ok, ma se il problema è una tappa un po’ lunga allora il problema non esiste. Stai tranquillo Nabaraj che noi entro sera arriviamo a Lukla; tu pensa a telefonare e a confermare il volo per domani.
All’ora di pranzo finalmente la conferma: siamo sul primo volo di domattina. Benissimo, almeno ci godiamo un po’ il soggiorno a Bhaktapur. 

Abbiamo fatto questa stessa strada solo una settimana fa, ma ci sembra passato un secolo. Quante emozioni in mezzo, quanti passi, quanti pensieri! Sembra veramente una vita fa.
Trottiamo su e giù senza alcuna difficoltà, incontriamo qualche punto un po’ più difficile, ma niente che ci possa mettere in crisi. Superiamo gli stessi ponti sospesi, le stesse rocce scolpite e gli stessi villaggi. In uno di questi rischio grosso, perché scendendo una ripida scalinata mi appoggio al masso che sta sulla sinistra per far passare una vecchietta che sale carica come uno yak. L’arzilla signora mi dice qualcosa prima di raggiungere il gradino su cui mi trovo e io da consumato nepalese sorrido e saluto con le mani giunte in risposta alle sue parole. Questa insiste più forte e un po’ meno amichevole allora mi schiaccio ancora di più contro la pietra, forse pensa di non passare, ma passa… passerebbe una carovana! Quando mi arriva alla distanza di un braccio alza il bastone che usa per sostenersi e me lo agita contro facendo versi come per scacciare un demone; ma cosa fa…? Insiste… questa mi mena col bastone! Insomma mi tocca indietreggiare su per la scalinata finchè non mi accorgo che quattro o cinque gradini più in su, sulla mia sinistra, c’è una scarpata sterrata che costeggia la pietra dall’altra parte. Era una pietra sacra! Solo che le incisioni sono verso valle e quella scarpatina che mi tocca prendere sembrava tutto tranne che un sentiero. Altro che superstizione! Quella mi batteva come un tappeto. 

Scampato il pericolo continuiamo a macinare metri, passo dopo passo, ammirando panorami che stavolta, finalmente, sono meno belli di come li ricordavamo. Gli ampi squarci azzurri non ci sono più e quando siamo in vista di Lukla è praticamente tutto coperto. Percorriamo l’ultimo tratto quasi senza pensare: stiamo concludendo il trek e proviamo un misto di soddisfazione e dispiacere, un insieme di sentimenti che si mescolano e si confondono nella nostra testa.
Superare l’arco lassù in cima alla salita non è solo la conclusione della lunga tappa di oggi, ma è la fine del percorso a piedi più impegnativo che abbiamo mai fatto. E’ la fine del nostro primo trek himalayano che ci ha regalato tante emozioni, tanta gioia e anche tanto dolore.
Bravi ragazzi, bravissimi! Complimenti a tutti. Ci abbracciamo e facciamo un brindisi immaginario al compimento di quella che per noi è stata comunque una grande impresa. I pochi che passano da lì ci guardano incerti, ma sicuramente capiscono cosa stiamo celebrando.
Nabaraj ci conduce allo stesso lodge in cui facemmo colazione il primo giorno e all’interno ci accoglie ancora il boss, con la stessa faccia tranquilla dell’altra volta. Il volo di domani pare essere confermato e stasera andrà lui stesso a prendere le nostre prenotazioni.
Davanti ad una tazza fumante salutiamo e ringraziamo gli splendidi ragazzi che ci hanno fatto da portatori, ci scambiamo gli indirizzi mail, le strette di mano e la promessa più o meno sincera di tornare per finire quello che non abbiamo finito. Lasciamo a ciascuno la propria mancia, a Nabaraj il poncho che usò quel giorno a Namche e ad uno dei ragazzi gli scarponi di Elena. All’altro avevamo già comprato gli occhiali da neve a Dingboche. Sì, perché ovviamente non erano preparati neanche loro a queste condizioni, visto che non era mai successo e mai poteva succedere. Appunto.
Sono bravi ragazzi. Erano lì la mattina del nostro arrivo e a un certo punto, da un secondo all’altro, si sono trovati in cammino con noi con la prospettiva di stare in giro per dieci giorni. Saranno anche abituati, ma riflettere su queste cose ci fa pensare a come sia diversa la prospettiva da queste parti.   

Prima di cena facciamo anche un giretto in paese, scopriamo che c’è uno Starbucks (!!!) e la connessione gratis ci attira più di quanto i prezzi fuori dal mondo ci respingono. Mentre aggiorniamo amici e parenti sulle nostre ultime avventure comincia a piovere forte. Faccia un po’ quello che vuole, tanto il boss ha detto che domani si vola. Mamma mia che stagione assurda!

 

domenica 20 ottobre: LUKLA – KATHMANDU – BHAKTAPUR
Sveglia alle 6, niente colazione perché abbiamo il primo volo del mattino e con questi aeroplanini non si sa mai. Il boss è già in aeroporto a predisporre tutto per noi, alle 6:30 telefona in hotel e ci dice andare subito perché tocca a noi. Via di corsa, zaini in spalla, borsoni e documenti in mano. C’è un timido sole e il cielo è abbastanza pulito, non c’è neanche vento. Perfetto. Assaporiamo già il lassi che ci spareremo tra un’ora appena arrivati a Kathmandu.
E invece no, niente lassi. Lo stanzone delle partenze sembra una stazione di taxi governata da tre o quattro potentissimi personaggi, uno è indubbiamente il boss, che piazzano i loro protetti su un aereo o su quell’altro, smerciano le carte d’imbarco come fossero volantini pubblicitari e a chi tocca tocca. Il nostro povero Nabaraj è decisamente impotente qua dentro. In più noi abbiamo cambiato il volo, quindi le situazioni erano già definite e gli accordi già presi. Infatti il boss ci dice subito che non partiamo col primo volo perché prima devono andare quelli di quella comitiva laggiù. Pazienza. Aspetteremo un pochino, cosa vuoi che sia. Purtroppo il secondo volo diventa il terzo e poi non diventa più niente; la gente arriva e parte e a noi non tocca mai. Il boss scompare e riappare e ogni volta ci dice di aspettare lì. A un certo punto arriva e dice che c’è un posto sul volo che sta per partire adesso. Ma come un posto? Sì, uno di voi può partire. E adesso cosa facciamo? Chi va? Vado io, vai te, ma no… alla fine mandiamo Nabaraj. Ci sembra la cosa più sensata da fare, così mentre ci aspetta può telefonare e organizzare al meglio il trasferimento a Bhaktapur. Lui è incerto, ci raccomanda al boss e poi va. Ma sì, non ti preoccupare, tanto tra poco tocca a noi.
Si fanno le 10 e poi le 11 e le 12, cominciamo ad avere fame, ma ormai siamo arrivati a questo punto, resistiamo ancora qualche minuto. Chissà se Nabaraj è davvero là che ci aspetta. Ma sì, dove vuoi che vada. Arriva insieme al boss la notizia che il nostro aereo ha avuto un guasto, quindi siccome la compagnia (la stessa dell’andata, chissà poi perché) ha solo due velivoli, dobbiamo aspettare che quello in pista vada a Kathmandu e ritorni. Incredibile. Il boss comunque è tranquillo e per dimostrarlo si gioca tutto con l’ultima frase che lo sentiremo pronunciare: “You will fly today.”. Non lo rivedremo più. Mitico il boss!
Nel frattempo il sole che prima era timido è sparito del tutto, s’è alzato un po’ di vento e le nuvole si ammassano da tutte le parti. Ci manca solo questa. Quando finalmente giunge la nostra ora sono le 14:30 e il cielo è nero. Per fortuna decolliamo e lasciamo dietro di noi le montagne che ormai non si vedono più. Qualche scossone, ma niente di preoccupante: arriviamo a Kathmandu sani e salvi e il buon Nabaraj è lì sotto la tettoia che ci saluta agitando un braccio. Ha aspettato sei ore senza spostarsi, perché anche lui pensava che potessimo arrivare da un momento all’altro. 

Ci sono due taxi pronti per andare a Bhaktapur. Ripiombare nel traffico è un vero choc, siamo stati in un mondo troppo diverso per ricordare i clacson della capitale. Tuttavia cambiare aria ci fa bene e, pur essendo comprensibilmente provati, sentiamo nuovi stimoli, quasi fossimo all’inizio di una nuova vacanza. In effetti è un po’ così.
A Bhaktapur scopriamo che per qualche motivo il nostro hotel non ha camere disponibili, ma i proprietari hanno una seconda struttura, proprio in Durbar Square. E allora via coi borsoni e gli zaini a Durbar Square, paghiamo l’ingresso (1100 rps) e ci conquistiamo l’hotel (Shiva Guest House, Durbar Square, Bhaktapur 11; tel. 977.1.6613912; bisket@wlink.com.np; shivaguesthouse.com). Anche qui però ci sono problemi, hanno solo una camera e per una notte due di noi potranno stare nell’hotel vicino (Golden Gate Guest House, Durbar Square, Bhaktapur; tel. 977.1.6610534 - 66112427; goldengate@mail.com.np; goldengateguesthouse.com). Nessun problema, ci mancherebbe, basta che possiamo toglierci questi vestiti stra-usati e andare a mangiare qualcosa.
Riaccompagnamo Nabaraj al taxi e nonostante lui dica che forse verrà personalmente a prenderci per portarci in aeroporto sappiamo che non sarà così. Ci stiamo separando qui, adesso, davanti alla bella piazza di Bhaktapur tra queste macchine che bloccano il traffico. Dopo tanti giorni passati insieme, dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme, ci sembra impossibile pensare di muoverci senza di lui. Non per insicurezza, ma perché la sua figura discreta e gentile è diventata ormai parte di noi, adesso lui è uno del gruppo. Strette di mano, con due mani, mille benedizioni e auguri di ogni tipo, buona fortuna, buon viaggio, arrivederci… Si vede che è dispiaciuto, dice che gli dispiace per quello che non è stato, ma non è colpa sua, poverino, nessuno può pensare una cosa del genere; si vede che anche lui si è un po’ affezionato a noi. Quasi non parla e anche noi facciamo un po’ fatica. Non ce n’è bisogno, non serve mica parlare, basta una pacca sulla spalla. Non lo dimenticheremo mai. Io sono l’ultimo… chissà se ci rivedremo… mi sa che non ci rivediamo più… Mi commuovo un po’ perché tanto lo so - però non è che posso star sempre a piangere – e anche lui mentre mi abbraccia. Mentre mi allontano col braccio alzato gli dico ciao Nabaraj, fai il bravo – proprio così in italiano – lui si passa un dito dietro gli occhiali e mi dice “yes yes, bye bye Alesander.” Non l’ha mai saputo dire bene. 

Due passi e siamo di nuovo in piazza. Come turistelli al primo giorno di gita ci facciamo spennare da un ristorante con terrazza panoramica, ma non importa, siamo affamati, e poi fino a poche ore fa eravamo a camminare in cima al mondo. Il cameriere non è nemmeno arrivato al tavolo che già dice: “Trek?”. Poi si segna il viso e capiamo che le nostre facce parlano da sole. 

Il primo impatto con Bhaktapur è molto positivo, ci piace l’atmosfera decisamente più rilassata e anche la piazza sembra più bella, più ricca e curata di quella di Kathmandu. Riusciamo anche a fare due passi prima di concederci un paio d’ore di riposo.
Stasera ci concederemo una cena speciale, di quelle che devi dire basta, per celebrare la fine del trek. Dovremo pur festeggiare in qualche modo! (New Watshala Garden Restaurant, Durbar Square, Bhaktapur; tel. 977.1.66110957; watshalagardenrestaurant@hotmail.com – 3509 rps in quattro - consigliatissimo)

 

lunedì 21 - martedì 22 ottobre: BHAKTAPUR
La colazione della Shiva Guest House è una delle più ricche e gustose che abbiamo mai provato. Sembra esagerato, ma davvero siamo rimasti colpiti. Dolce, salato, nepalese, cornetti, pane, uova, tutto quello che si vuole con refill illimitato. E non si tratta di un buffet, ma di cose preparate e servite al tavolo. Scopriamo anche con orrore che il lassi non c’è: qui fanno una specie di cagliata che chiamano semplicemente yoghurt o juju dhau. Con molto meno dispiacere ci rendiamo conto che forse è meglio del lassi e che la dipendenza che crea è ancora più potente. Ci spiegano che in sostanza il lassi non è altro che il juju dhau con aggiunta di acqua. Inutile dire che l'hotel è super consigliato per qualunque soggiorno a Bhaktapur: il cibo, le camere, il servizio, il ristorante, la posizione... tutto di ottimo livello. 

Gli eventi dei giorni scorsi ci hanno regalato una mezza giornata in più da trascorrere insieme, così ci dedichiamo all'esplorazione della città con tutta la calma possibile. Per fortuna è subito chiaro che non ci sono molti negozi di articoli da montagna, altrimenti avremmo rischiato la dannazione eterna nel girone di quelli con la mani bucate.
Abbiamo invece tempo di seguire gli itinerari a piedi consigliati dalla lonely, di fermarci ad ogni angolo per fare foto e di spingerci anche fuori dai percorsi tradizionali. Davvero molto bella questa cittadina, ci piace un sacco e ci convince sicuramente più di Kathmandu, da tutti i punti di vista.
Durbar Square, il palazzo reale e Taumadhi Tole occupano in pratica la stessa piazza, mentre la favolosa Tachupal Tole, l'antica piazza centrale, è un po' più distante verso est. E' un piacere raggiungerla seguendo le mille stradine e superando le mille piazzette che all'improvviso si aprono davanti a noi.
In particolare quella dei vasai merita una sosta, tanto che Matteo si fa catturare da un omino che lo invita a fare un vasino insieme a lui, col fango sulla ruota di pietra. Ovunque ci sono vasi, vasetti, ciotole, tutti stesi ad asciugare su larghi teloni che occupano quasi tutta la piazza: i passaggi pedonali sono ridotti a stretti sentieri tra distese di vasellame grigio.
Oltre il fiume l'atmosfera è ancora più rilassata, i turisti sono quasi inesistenti e solo qualche carretto passa cigolando a rompere la polverosa quiete delle strade sterrate. Assistiamo brevemente, per caso, anche a un rito funebre, proprio in corrispondenza di un'ansa del fiume riparata dagli alberi, che ci riporta per un attimo con la mente a Pashupatinath. Il contesto è sicuramente meno grandioso, ma i gesti e l'intensità sono gli stessi, così come il desiderio di non disturbare che ci fa restare più invisibili che si può. 

A fare da contrasto con tutto questo pare che in città si stia tenendo una specie di meeting internazionale, una cosa tipo summit sulla sanità dei paesi più piccoli e sfigati del sudest asiatico. Non siamo sicuri, ma vicino a quella del Nepal riconosciamo le bandiere delle Maldive, del Bhutan, del Bangladesh e forse qualche altra. Di sicuro a un certo punto spuntano dal nulla poliziotti e militari, tutti col fischietto in bocca, tutti a spostare la gente ai lati della strada... chissà chi deve passare, forse la papamobile, pensiamo... finchè non arrivano due macchine (due) nere con vetri neri, precedute e seguite dalla scorta motorizzata, che passano il ponte e in due secondi spariscono verso la campagna. Un'occhiata veloce al motivo di tanto baccano, tempo di sistemarsi i fardelli sulla schiena, e in altri due secondi tutti quelli che erano in strada tornano a fare quello che dovevano fare e a portare chissà dove quello che dovevano portare. 

Prima di accompagnare Elena e Matteo all'aeroporto e prima di scontrarci nuovamente con gli amiconi di FlyDubai abbiamo anche il tempo di organizzare una gita in taxi a Changu Narayan. Il tempio vero e proprio sorge in cima alla collina che sovrasta l'omonimo paesino e per raggiungerlo si deve percorrere a piedi la salita che dal parcheggio riservato ai veicoli risale il fianco della montagna. La passeggiata è l'occasione per attraversare una zona sicuramente meno battuta dal turismo di massa e per avere un assaggio di vita più o meno vera delle campagne fuori dai grandi centri urbani. Stretti vicoli, case di mattoni costruite una addosso all'altra, gente che sale e scende sempre con qualcosa in testa o sulla schiena: fasci d'erba, mattoni, sterpaglie, tessuti, cesti, bidoni... ognuno ha qualcosa da trasportare. Alle finestre lunghe file di pannocchie stanno appese al sole.
Il tempio è molto interessante, per quello che possiamo capire dall'infarinatura di cultura locale che abbiamo, sia per alcune strutture di particolare bellezza che per la presenza di statue e raffigurazioni uniche e particolari, come quella di Vishnu e Garuda che compare sulle banconote da 10 rps.
La gita, trasporto compreso, non porta via più di due ore ed è sicuramente una cosa consigliata per chi ha un po' tempo da spendere a Bhaktapur, che da sola richiede meno di due giorni. 

A metà pomeriggio accompagnamo Elena e Matteo in aeroporto, non tanto per sventolare i fazzoletti (li rivedremo domani notte a Dubai), quanto piuttosto per chiarire il mistero dell'imbarco bagagli e quello del mio nome che compare contemporaneamente su due voli diversi.
Nell'ufficio di FlyDubai scopriamo che in effetti la compagnia mi ha arbitrariamente spostato sul volo notturno, lasciandomi però anche su quello della sera. Il problema è che quello notturno ci farebbe perdere la coincidenza a Dubai. E allora spiega, chiarisci, mostra le mail, ripeti una due tre cento volte la stessa cosa alle stesse due persone. Alla fine chiamano il loro headquarter e ci rassicurano: domani andate pure al check-in del vostro primo volo, è tutto chiarito. Bene, grazie, molto gentili... Chissà perchè non siamo per niente tranquilli. Vedremo domani.
Quando io e Sabrina usciamo dagli uffici è ancora giorno e allora già che siamo a Kathmandu ci facciamo portare in centro. Voglio andare in agenzia a salutare Om. Nonostante fossimo qui pochi giorni fa, dopo la montagna e la calma di Bhaktapur ora le vie ci sembrano meno familiari, facciamo un po' fatica ad orientarci, non troviamo i nostri riferimenti, sbagliamo un paio di deviazioni finchè... eccolo... il venditore di lassi! Come un vecchio avventore da osteria ne ordino due "big", senza neanche parlare, da dietro le teste dei passanti, col solo gesto della mano: potessi star qui ancora un po' diventerei nepalese. Adesso la strada è facile, ripassiamo da Durbar Square, sempre come nepalesi la attraversiamo passando dall'angolo cieco per non pagare il biglietto, risaliamo le strade ormai note e siamo alla via di Om. A un certo punto sentiamo dei richiami dall'altra parte della strada, c'è uno che si sbraccia per salutarci... è il tipo del mountain shop cui abbiamo svuotato il negozio. Quando si dice l'affetto per la clientela. Attraversiamo la strada, ciao come va, allora il trek, una stretta di mano e il danno è fatto: siamo di nuovo dentro. Per fortuna riusciamo a contenere il demone e ce ne andiamo con un paio di k-way. 

Om ci accoglie come vecchi amici, sa già tutto e ci stringe la mano complimentandosi per quello che siamo riusciti a fare. Dice che Nabaraj gli ha raccontato ogni bene di noi, che siamo diventati amici, ci racconta la storia della sua agenzia, ci dice che in trent'anni non gli era mai successo niente di simile, che siamo stati bravi e che se anche fossimo arrivati a Lobuche non ci avrebbero fatto proseguire a causa della neve, che al Khala Pattar era tecnicamente impossibile salire e tante altre cose che ci consolano come una goccia d'acqua a uno nel forno. E' sinceramente contento di rivederci, la sua gioia è vera e lo apprezziamo moltissimo, e forse ci sentiamo anche un po' più in pace, come se solo adesso, con le sue parole, avessimo davvero chiuso il trek. Ci salutiamo con tanti abbracci e un arrivederci, magari è vero. Che belle persone abbiamo incontrato quaggiù!
 

mercoledì 23 – giovedì 24 ottobre: BHAKTAPUR – KATHMANDU – ITALIA
Si torna a casa. Dopo aver fatto indigestione di juju dhau gironzoliamo nei dintorni di Durbar Square con la calma di chi non ha niente altro da fare, indugiando con ostentata lentezza nei punti che ci piacciono di più, sedendo qua e là con il solo scopo di goderci gli ultimi momenti di Nepal. 

Nel frattempo ci arrivano notizie da Dubai: tutto ok il volo, a parte che FlyDubai ci ha fatto pagare una cifra spropositata per l'imbarco dei bagagli (tipo 70 euro invece di 20), nonostante il servizio clienti ci avesse assicurato il contrario, visto che il tutto era causato da un malfunzionamento del sito della compagnia. Poco male, in fondo sono solo soldi. Chissà cosa ci aspetterà oggi all'imbarco.
E infatti... Al banco check-in ancora un'ora di discussione per il volo cambiato, ovviamente nessuno sa niente, stesse scene di ieri, stessi dialoghi, stesse spiegazioni... solo che non si può parlare con l'headquarter. Che forti questi di FlyDubai. Uno mi rifiuta l'imbarco e mi fa mettere fuori dalla fila, l'altra mi guarda, l'altro ancora telefona... mi sembra una scena del film Argo... E mentre a un'ora dal decollo sto pensando al modo migliore per farli secchi, la situazione chissà come si sblocca e mi consegnano la carta d'imbarco. Avremmo perso la coincidenza. 

Ritrovare i nostri compagni di avventura tra la folla dell'aeroporto di Dubai ci sembra una cosa stranissima, quasi come riprendere la macchina e guidare in autostrada, andando a 120 all'ora in pianura invece che a passo d'uomo in salita.
Non servono molte parole per occupare il tempo fino a casa, così come non ne servono per chiudere un diario: le emozioni vissute insieme sono indelebili nei nostri cuori e ci riempiono ancora oggi come se ne stessimo parlando da allora, come se le vivessimo ancora tutti insieme, in fila indiana dietro a Nabaraj e alla sua camicina a quadretti, passo dopo passo fin lassù, dove le montagne sono più alte delle nuvole, sul tetto del mondo.








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